La crisi strutturale dell’Arabia Saudita

Fu il padre di “Kim” Philby, anch’egli un uomo dell’intelligence di Sua Maestà Britannica, a sostenere gli americani della Standard Oil, in Arabia Saudita, invece della Royal Dutch Shell britannica e olandese. Chi tradisce una volta, tradisce sempre, e il figlio “Kim” tradirà l’Inghilterra per seguire un mito comunista prima come infiltrato nel Servizio di Londra poi come rifugiato in URSS, salvo poi partecipare a quella riunione dell’Istituto Andropov che decise la perestrojka e la glasnost. Ma ora, come vanno le economie dei Paesi produttori arabi e sunniti di petrolio, che hanno da sempre retto l’OPEC e, oggi, stanno depotenziando l’agenzia viennese per lottare meglio contro l’Iran, l’area russo-asiatica e perfino gli USA, ormai primi produttori, davanti agli stessi sauditi? La questione è cruciale non solo per la nostra economia, che è ancora dipendente dal petrolio, ma per la nostra stabilità politica e strategica. E’ ormai evidente che il Daesh/Isis è una forza militare e politica che può modificare gli equilibri politici della Mesopotamia e, indirettamente, degli stessi Paesi che lo hanno aiutato a costituirsi: i sauditi, appunto, il Qatar che lotta con l’Iran per l’area di estrazione marina di gas Pars-II, gli Emirati, che lo usano come force multiplier in EU e in Asia, la Turchia, che lo ha usato per destabilizzare la Siria e combattere i curdi, perfino qualche paese occidentale ha sostenuto il Daesh in funzione antiraniana. Ora, il califfato di Al Baghdadi è diventato troppo grande e pericoloso per tutti, ed è questo il motivo per cui l’intervento, certo opportuno, della Federazione Russa è stato visto con sollievo anche dai competitori occidentali di Mosca. Ma il Daesh/Isis è un richiamo troppo forte per molti islamici: 42 milioni tra di essi lo sostengono politicamente, come ci riferisce un sondaggio svoltosi nel mondo arabo sunnita. E sarebbero 8,5 milioni quei musulmani che potrebbero sostenerlo anche militarmente o finanziariamente. In Siria il 17% della popolazione sostiene il califfo, mentre in Algeria il gruppo Jund al Kilafah è ormai parte di questa nuova internazionale jihadista. In Afghanistan è già operativa la rete califfale del Tehrik-e Taliban Pakistan, in Uzbekistan opera da tempo il Movimento Islamico che, anch’esso, si richiama all’esperienza del Daesh/Isis insieme al battaglione Al Tawhid, che opera nel Nord Waziristan. In Libia operano già Ansar al Sharia e, a Derna, il Consiglio della Shura della gioventù islamica, a Gaza si è manifestato uno Stato Islamico di Gaza ed è ormai nell’orbita di Isis/Daesh il Consiglio della Shura dei Mujahiddin dell’area di Gerusalemme. In Libano troviamo Ahrar al Sunna e la Brigata di Baalbek, (i “liberi sunniti di Baalbek”) e in Yemen, contro gli Houtis sciiti, troviamo a combattere Al Qaeda nella Penisola Arabica, che sostiene il califfato contro “la cospirazione iraniana e americana”; nelle Filippine si è già mostrato il Movimento per la libertà islamica Bangsamoro e, ancora, il Giordania il califfo opera con le vecchie reti salafite, mentre in Egitto si muove il Jund al Kilafah in Egitto. In Tunisia è attiva la “sezione” Isis che abbiamo già notato in Libia, Ansar al Sharia. Siamo sicuri che tutto questo ribollire del jihad nel mondo islamico sunnita non ci debba far riflettere per costruire una nuova geopolitica del mondo arabo, insieme alla Shangai Cooperation Organization, a Israele e all’Asia sulle coste del Pacifico? In altri termini, se ormai nemmeno le ricchezze immani delle petromonarchie del Golfo possono sostenere il jihad “della spada” califfale, data la sua estensione, è estremamente probabile che il Daesh/Isis faccia concorrenza, per il petrolio, all’OPEC sunnita e ritorni al vecchio progetto di Osama Bin Laden: distruggere i governi islamici “takfiri”, apostati, che sono amici dell’Occidente “ebreo e crociato”. Ma la crisi dell’Arabia Saudita, innescata dal ciclo di bassi prezzi del petrolio, si è radicalizzata con due importanti variabili: la lentezza della diversificazione economica fuori dal ciclo del petrolio e lo straordinario “costo della politica”, ovvero della immensa famiglia reale e dei suoi clientes. Se va avanti così, Riyadh, proprio per mantenere il suo standard di spesa (e di sicurezza interna) dovrebbe ridurre a zero i suoi depositi e i suoi investimenti finanziari entro i prossimi cinque anni, secondo i calcoli del Fondo Monetario Internazionale. Senza contare che, se pure è vero che l’entità delle riserve in Arabia Saudita è segreto di Stato, le proven reserves di Riyadh sono ancora al secondo posto tra i grandi produttori mondiali, secondo la Barclays Bank. L’idea saudita potrebbe essere quella di fare il produttore/trader del petrolio altrui per finanziare la sua proiezione di potenza fuori dall’OPEC e la sua trasformazione economica anche in fasi lunghissime di prezzi bassi del barile. Il Paese più povero in riserve provate è la Nigeria, con 37,44 in milioni di barili/giorno, poi abbiamo la Libia, con 48,47 milioni ( e qui si capisce che l’idiota attacco a Gheddafi era, in primis, un attacco all’ENI, che lavorava il 50% del petrolio libico, magari in attesa di comprarla) e al terzo posto troviamo la Federazione Russa, con 80 milioni. Al di là dei Paesi che sono stati destabilizzati, Libia e, in parte Nigeria, tutti quelli con riserve provate medio-alte sono contrari alla vecchia egemonia di Riyadh. E se, per fare una domanda cattiva e maliziosa, non fosse possibile che i sauditi possano finanziare il Daesh/Isis per danneggiare i loro concorrenti dentro l’OPEC e magari per lavorare o commerciare il petrolio estratto nelle aree jihadiste? Tornando alla lista delle riserve provate, abbiamo gli Emirati Arabi Uniti, che non seguono più pedissequamente gli interessi strategici di Riyadh (97,8 miliardi barili/giorno) il Kuwait, con 104 miliardi, l’Iraq, con 140,3 miliardi, e qui si capisce bene come i sauditi abbiano voluto, con il Daesh, depotenziare un forte concorrente, poi c’è ancora l’Iran, 157,3 miliardi di bpg, il Canada, 173,2 miliardi, i sauditi, con 268,8 miliardi bpg, e infine il paese meno sfruttato, il Venezuela, che però è in America latina e non gioca alcun ruolo nel Grande Medio Oriente. Prendersi il petrolio degli altri, commerciarlo, approfitare della situazione relativamente critica dell’Iran per chiudere la antichissima partita tra sciiti e sunniti. Sono tutte ipotesi che certamente circolano, tra i decisori di Riyadh, che finora hanno goduto dell’appoggio USA, che potrebbe diminuire tra breve. Ma le perdite derivanti dall’abbassamento del prezzo del petrolio potrebbero bloccare tutti questi progetti sauditi: l’area della penisola arabica ha contato perdite di entrate per 360 miliardi di Usd, mentre la sola Arabia Saudita ha oggi un deficit pubblico del 21,6%, che si stabilizzerà al 19,4% l’anno prossimo. Intanto, i produttori di petrolio e di gas dell’Asia Centrale, pur con le suddette limitazioni, riescono a differenziare meglio la loro economia e a attirare capitali stranieri non- oil. E’ questa la gara futura, dopo che l’OPEC sarà ridotta al simulacro di sé stessa. Era una organizzazione della guerra fredda, non sopravviverà certo alla nuova dislocazione dei potenziali strategici mondiali verso Est e verso lo Hearthland asiatico centrale. L’industria del petrolio saudita, peraltro, genera ancora l’80% delle entrate pubbliche. Le riserve in divise estere si sono ridotte di 59,8 miliardi di Usd su un totale di 664,5 miliardi, mentre Riyadh ha, per la prima volta nessa sua storia, venduto, l’agosto scorso, 5,3 miliardi di titoli del suo debito pubblico. Se quindi Teheran tiene duro con la sua guerra per procura ai sauditi, potrebbe arrivare il momento in cui la combinazione di alti livelli di spesa interna saudita, per sostenere una sempre meno sicura pace sociale, potrebbe unirsi a quella per finanziare i jihadisti sunniti all’estero, facendo crollare il rial e destabilizzando in modo oggi inimmaginabile l’area. Peraltro, gli USA hanno sempre meno interesse a gestire il particolare circuito di riciclaggio dei petrodollari messo in piedi da Kissinger dopo la guerra dello Yom Kippur, ora Washington ha da pensare alla sua rete di gas e petrolio shale che necessita di forti investimenti. Non manca la spesa per la difesa, altro pozzo senza fondo delle finanze pubbliche saudite: il solo Yemen e le attività in Siria, con o senza il Daesh/Isis, costano a Riyadh il 7% in più ma si prevede che, per mantenere il livello attuale di difesa interna e esterna, i sauditi dovranno aumentare del 27% la spesa per le Forze Armate nei prossimi cinque anni. Non reggerà, è molto probabile, data la ampiezza e il costo stratosferico della famiglia reale, che non si farà certo da parte facilmente. Se quindi mettiamo in conto un attacco qaedista o califfale ai propri vecchi datori di lavoro sauditi, con un aumento della instabilità interna, religiosa e non a causa del welfare, un contesto di bassi prezzi del barile per un lungo periodo, l’allontanamento degli USA dal quadrante mediorientale, l’assoluta irrilevanza europea, la pressione di Russia e Cina verso l’Iran e l’Asia Centrale, non ci sembra che il futuro dell’Arabia Saudita sarà tra i più rosei.