La crisi economica dell’Iran e i suoi effetti nella strategia di Teheran

Intanto, vediamo la attuale demografia iraniana, che è alla base, come accade ovunque, della composizione della forza-lavoro e del volume degli investimenti pubblici.
E anche della produttività e della spesa dei privati.
Dai primi anni della rivoluzione islamica, che hanno visto un aumento delle nascite di 2,5 milioni, nei primi anni dopo l’avvento del regime, siamo arrivati agli anni 2000, con un aumento annuale di solamente circa un milione di nuovi nati, mentre oggi siamo in una fase di ulteriore restrizione riproduttiva.
C’è poi l’immigrazione, altro fattore determinante della composizione demografica, che è sempre, lo ripetiamo, alla base della struttura economica di ogni Paese.
Ben 1,8 milioni di iraniani, ovvero il 2,2% sugli attuali 82,407 milioni, sono di origine straniera, per quanto sappiamo comunque dal censimento del 2016, l’ultimo efficace prodotto dal regime degli ayatollah.
Da tutto ciò deriva la presenza di una vastissima quota di popolazione iraniana in giovane o giovanissima età.
Il che genera, come è facile dedurre, un alto tasso di disoccupazione giovanile (e non).
E anche, come è spesso accaduto nella storia, una tendenza dei regimi a spostare fuori, anche con la guerra, l’eccesso di popolazione in età da lavoro.
Il tasso di disoccupazione medio, nella repubblica islamica sciita, è del 12,2% se lo calcoliamo sui dati ufficiali del settembre-ottobre 2018.
Quello della disoccupazione femminile, però, è già al 19,8%, mentre la mancanza di lavoro reale, e non ufficializzata dal governo di Teheran, tra i soli giovani è, sempre secondo gli ultimi dati, del 28,40% nel primo trimestre del 2018, con punte regionali del 35% e perfino del 38% in alcune aree periferiche.
Altro effetto secondario, ma inevitabile, della disoccupazione giovanile è il brain drain, che causa la fuga dall’Iran di 150.000-180.000 laureati l’anno.
Una tassa occulta che costa alla repubblica degli ayatollah 50 miliardi di mancate, probabili, esazioni fiscali, oltre alla perdita secca dei costi pubblici (e familiari) per l’istruzione superiore.
Dopo il 2015 però, l’anno dell’accordo JCPOA con il P5+1, ovvero con la Cina, la Francia, la Federazione Russa, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ma anche con la partecipazione della Germania, vi è stata una crescita economica significativa che non ha, però, affatto facilitato Teheran nell’accesso ai capitali iraniani che erano stati congelati a causa delle sanzioni.
Il totale dei frozen assets dell’Iran è ancora tra i 100 e i 124 miliardi di Usd, con circa 50 mld. che sono stati recentemente ri-congelati nei soli Stati Uniti.
La fase sanzionistica è stata caratterizzata, quindi, da un vero e proprio collasso dell’economia iraniana.
Da un Pil con crescita del 6% annuo nel 2010, l’Iran è arrivato a certificare un Pil in aumento di solo l’1,5% nel 2015, proprio l’anno della firma del JCPOA.
Nell’anno successivo, con la eliminazione di alcune sanzioni verso Teheran, il Pil crebbe del 12,5% e di oltre il 4% nel 2017.
Effetto-bomba nel 2016, quindi, a causa del JCPOA, poi una crescita comunque notevole, ma certamente tali dati sono ben superiori ai miserevoli livelli della crescita del Pil attuale europeo, negli anni successivi.
Prima dell’abbandono unilaterale dell’Accordo sul nucleare con la repubblica iraniana, da parte degli Usa, le banche internazionali avevano peraltro previsto una crescita del 4,8% del Pil iraniano nel 2018.
Il dato attuale è invece dell’1,8%.
Le sanzioni, soprattutto quelle riguardanti la valuta, centrano sempre l’obiettivo.
Ma, oggi, le sanzioni unilaterali degli Usa non colpiscono eccessivamente il sistema militare di Teheran, che nasce soprattutto su tecnologie e brevetti interni e non teme troppi danni dall’embargo e dalle sanzioni anti-iraniane.
Ma il valore del riyal, la divisa di Teheran, si è ridotto della metà dall’annuncio dell’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare allo scorso luglio, mentre fino ad oggi il riyal ha perso addirittura l’80% contro il dollaro.
Peraltro, l’Iran è costretto oggi a importare, a causa di alcuni disastri naturali, molto cibo dall’estero, proprio quando la sua moneta vale sempre di meno.
Come sempre accade, poi, la grande svalutazione ha creato alta inflazione: oggi il tasso di inflazione iraniano è, realisticamente, del 24% circa, mentre il governo di Teheran parla di un 10,2%.
L’Iran ha, ancora oggi, circa 90 miliardi di Usd di riserve, con l’estrazione di 3,79 milioni di barili/giorno (dato del giugno 2018) ma la produzione, stante la situazione delle rinnovate e parziali sanzioni da parte degli Usa, diminuirà certamente.
Per la gioia dell’Arabia Saudita, soprattutto, la cui produzione di greggio è in diretta relazione inversa con quella iraniana.
Sul piano strategico e militare, il primo passo di Teheran, se vorrà impostare una azione di guerra, saranno gli stretti di Hormuz.
Da queste vie d’acqua passa oltre il 30% del traffico marittimo di petrolio, (ovvero 18,5 milioni di barili/giorno) visto che essa è la via più usata da tutti i Paesi arabi esportatori.
Ma gli stretti di Hormuz, che sono larghi 33 miglia nell’area più stretta, sono anche la via d’acqua di gran parte delle esportazioni petrolifere iraniane, il che limita di molto la possibilità di un blocco di Hormuz generalizzato, senza contare che il quartier generale della V Flotta Usa è a breve distanza da Manama, la capitale del Bahrein.
Naturalmente, basta la sola minaccia, relativamente credibile, di bloccare gli stretti di Hormuz per far salire sensibilmente il prezzo del barile; e sarebbe poi questo quello che conta.
Quindi, vi è un collegamento diretto tra il perseguimento degli obiettivi strategici naturali di Teheran e la sempre più difficile situazione dell’Iran, sottoposta a nuove e non certo trascurabili sanzioni unilaterali degli Usa.
Tanto vuole l’Iran, tanto esso sarà punito sui mercati e nel sistema geopolitico internazionale.
Sanzioni, quelle attuali Usa del novembre scorso, come erano quelle prime del JCPOA, riguardanti quindi i metalli preziosi, l’acquisizione di banconote statunitensi, o di tecnologie direttamente o indirettamente legate alla estrazione petrolifera o alla costruzione di armi, infine anche alle operazioni di trasporto e stoccaggio dei petroli.
Naturalmente, tutti i pagamenti a enti o persone iraniane non possono essere operati attraverso banche Usa.
Quindi, se è attualmente improbabile uno scontro diretto tra Iran e Stati Uniti, è comunque ipotizzabile una tensione tra i due Paesi, una escalation che implica anche, in certi momenti, operazioni belliche o semi-belliche.
Una variabile ulteriore di questo scenario è l’utilizzo, da parte di Teheran, di strategie indirette o di “guerre ibride” nelle aree vicine a Hormuz, o in qualsiasi settore mediorientale dove gli sciiti o le FF.AA. iraniane e, soprattutto, i Pasdaran, possano iniziare una guerra d’attrito con le procedure tipiche della guerra ibrida, della guerriglia, della guerra per procura o dell’attrito strategico.
E, soprattutto, saranno attaccate dall’Iran, in vario modo, anche senza possibilità di riconoscimento degli attaccanti, le navi petroliere dei paesi arabi “nemici” della repubblica sciita iraniana.
E’ uno scenario altamente probabile, ma solo se la repubblica sciita si sentisse fortemente accerchiata o subisse un attacco da parte di Israele, Usa o delle potenze sunnite del Medio Oriente.
Sono infatti già accaduti attacchi, da parte dei ribelli Houthy yemeniti, a navi della Saudi Aramco, durante il loro passaggio dagli stretti di Bab el Mandeb. Se Riyadh rispondesse con le stesse procedure, si creerebbe una “piccola guerra” negli stretti, che è proprio quello che l’Iran vuole, senza mai crearne direttamente l’occasione.
Circa 5 milioni di barili/giorno passano da Bab el Mandeb verso il Mediterraneo, e viceversa.
Far colpire, senza azioni dirette dei Guardiani della Rivoluzione o del meno fidato Artesh, queste linee, potrebbe essere una scelta possibile, per Teheran.
Che, però, si inimicherebbe gli europei che, comunque, non contano nulla né strategicamente né militarmente; ma la cosa potrebbe creare un precedente per un’azione militare degli Usa, con o senza i suoi alleati regionali.
Se mettiamo quindi in campo una serie di pressioni internazionali finanziarie, politiche, militari, si può pensare che gli Usa si possano rimettere, in futuro, al tavolo delle trattative con la repubblica sciita di Teheran.
Attualmente, ci sembra che Washington lasci l’affaire iraniano ai sauditi e a Israele. Ma forse non basterà.
Secondo le idee di fondo della attuale gerarchia al potere in Iran, quindi, la reazione negativa alla crescita del potere di Teheran non dipende dalla sua natura minacciosa, ma dal timore per la crescita di un nuovo attore mediorientale, l’Iran appunto.
Quindi, sempre secondo le classi dirigenti iraniane, solo perseguendo gli obiettivi di una forte autonomia e di una evidente, significativa power projection dell’Iran, sarà possibile avere, in futuro, un livello accettabile di sicurezza per Teheran e un buono standard di stabilità geo-economica.
La teoria strategico-militare dei dirigenti iraniani riguarda comunque, e sullo stesso piano, le minacce sia convenzionali che non-convenzionali.
L’espansione dell’Iran è comunque, secondo la dirigenza di Teheran, relativa alla semplice sicurezza e stabilità del loro paese, e non ha alcuna mira, appunto, espansionista.
Questo è quello che dicono. Ma come si fa a creare una espansione pacifica delle reti commerciali se ci si muove, come accade all’Iran attuale, tra nemici potenziali o espliciti?
Se, quindi, l’economia della repubblica sciita sarà messa ulteriormente in crisi, dicono i dirigenti di Teheran, allora il governo iraniano procederà a trattative bi- o trilaterali con i suoi vicini, con la creazione di reti di trasporto, finanziarie e commerciali, oltre allo scambio stabile di forza-lavoro, monete nazionali e beni e servizi.
In quest’area vasta, dicono i dirigenti iraniani, Teheran potrebbe impostare il suo nuovo sviluppo economico, fuori dalle relazioni con gli Usa e, magari, con la debole UE.
In altri termini, ancora più chiari: ferrovie, strade commerci e reti informatiche tra Teheran e il Libano, l’Iraq e la Siria.
Ecco uno dei risvolti del decisivo ruolo iraniano nella guerra siriana.
Sul piano della difesa nazionale, i dirigenti sciiti iraniani ritengono che la linea di intervento più importante in questo settore sia la costruzione di rapporti ottimali con gli Emirati Arabi Uniti e con il Qatar; mentre si delinea, nella mente dei decisori iraniani, un asse saudita-turco.
Ma con un nuovo asse turco-iraniano organizzato dalla Federazione Russa e che sigla una pace tra Teheran e Ankara, una pace che riguarda la Siria ma che, nella visione dei dirigenti turchi, potrebbe portare ad una alleanza finanziaria e petrolifera tra i due Paesi, una alleanza alla quale non sarebbe estranea Mosca.
La lotta di Teheran contro il Daesh-Isis è stata poi, sempre secondo i dirigenti iraniani, una operazione di securizzazione dei propri confini, soprattutto con gli interventi dei Pasdaran, in Siria e in Iraq.
L’altro progetto strategico dei capi iraniani è quello di una alleanza stabile e forte con la Federazione Russa.
Dal punto di vista di Teheran, tutte le sue operazioni militari recenti, anche utilizzando il nuovo scenario generato dalle “primavere arabe”, sono state quelle di utilizzare proprio il caos indotto dall’Isis, per esempio in Iraq, al fine di creare uno stabile corridoio tra il territorio iraniano e alcune aree di quello iraqeno, esattamente come sta accadendo in Siria nella nuova linea verde tra l’Iran e il Libano degli Hezb’ollah.
Una geopolitica dei “corridoi”, che prima sono militari e poi economici.
Assad è quindi cruciale per tutti i progetti di Teheran, visto che può congiungere l’Iran con il Mediterraneo.
E con possibili minacce, soprattutto asimmetriche, da parte di Teheran, che potrebbero essere lanciate dalla costa libanese non solo agli avversari “storici” (Israele e Usa, ovviamente) ma a tutto il passaggio di beni che si muove verso le coste meridionali della UE che, ovviamente, non se ne è ancora accorta.
Ci saranno, in futuro, basi navali iraniane sulle coste libanesi.
Ecco, in tutto questo meccanismo concettuale è possibile vedere le scelte attuali e future, nel campo militare e della politica estera, degli iraniani:
1) Aumento dei legami commerciali con i paesi confinanti con la repubblica sciita, tramite accordi anche di carattere monetario, di esportazione, di manodopera e di sostegno finanziario, per uscire dall’area del dollaro, come fanno la Cina e la Russia,
2) Utilizzazione di tali rapporti per la creazione di un “cerchio esterno” utile per la difesa dell’Iran, con evidenti necessità di utilizzare postazioni remote per i missili e per la contraerea, con la futura creazione di una sorta di “NATO sciita” che potrebbe essere connessa alla Shangai Cooperation Organization,
3) Creazione di un equilibrio tra perdita di posizioni iraniane nel mercato Usa e costituzione di nuove occasioni in quello europeo e mediorientale, con l’espansione economica iraniana in Azerbaigian e in Uzbekistan,
4) Espansione futura delle proxy wars in Yemen e, possibilmente, anche in Arabia Saudita, magari con una operazione di “seduzione” iraniana nei confronti di Manama e di altri emirati del Golfo, oltre naturalmente all’ulteriore rafforzamento del nesso tra Teheran e il Qatar,
5) Probabile minaccia diretta a Israele, tramite Hezb’ollah, per verificare i rapporti di Gerusalemme con i paesi europei e gli Usa. La domanda di fondo dei dirigenti iraniani è sempre quella: saranno gli europei, o perfino gli americani, disposti a “morire per Gerusalemme”?
6) Aumento programmato della tensione sugli stretti di Bab el Mandeb, ma con azioni brevi e dimostrative, di cui gli iraniani stessi, per primi, osserveranno gli effetti sul mercato del petrolio e sull’assetto militare del Medio Oriente.
7) La probabile creazione futura, da parte di Teheran, di una specie di “mercato comune sciita”, ma aperto anche ad altri Paesi sunniti, che però andrà nella direzione storica di Khomeini: espandere l’Iran “rivoluzionario” nell’asse centro-asiatico, unificando molti Paesi che hanno minoranze sciite, come l’Uzbekistan, gli Hazara in Afghanistan, Azerbaigian, fino alle minoranze sciite in Pakistan, al cui governo Teheran potrebbe garantire la pace sociale. Esaltare le minoranze sciite per poi trattare con i loro governi sunniti: una possibile strategia futura di Teheran.
Ecco, saranno molti i segnali che la repubblica islamica dell’Iran ci manderà, nei prossimi mesi e anni.

Giancarlo Elia Valori