Nel Bazar delle Follie, per quanto datato il business è il re e l’imprenditorialità la sua schiava. Eppure, la cultura dell’innovazione aperta, come dai noi configurata in questo blog, trova un terreno fertile nell’imprenditorialità modellata sulla taglia degli individui di talento che combinano insieme scienze e arti, giocando così a tutto campo con l’innovazione. Nel gioco sono coinvolte le imprese imprenditoriali, quelle che collaborando con università e centri di ricerca pubblici e privati innovano disegnando prodotti e servizi personalizzati, risultanti dalla scoperta dei bisogni latenti, e non solo dalla domanda, di un singolo individuo o gruppo.
Lungo le linee di pensiero in precedenza delineate, la cultura dell’innovazione aperta entra in conflitto con il business corrente. Immerso nell’età dell’industrializzazione, il business si è modellato intorno ai prezzi elevati, alla massimizzazione dei profitti e alla propensione al consumo intesa come esaltazione personale della felicità e, quindi, come fine supremo della vita. L’obiettivo del business visto in questa luce, insieme alla deriva consumistica, ha messo al palo tendenze scientifiche e talenti, sia orientati verso l’innovazione generatrice di produttività sostenibile nel tempo, sia determinati a promuovere una ricchezza diffusa a vantaggio del bene comune. Anche quando tale modello aziendale ha incorporato il concetto di prodotti migliori e meno costosi, l’innovazione ha svolto un ruolo marginale, finendo per essere mercificata. Le restrizioni imposte all’innovazione sono state accompagnate da maggiori concentrazioni di potere e ricchezza da parte del top management aziendale e del settore finanziario. Di conseguenza, i consumi vistosi hanno fatto ancora una volta la loro comparsa sulla scena, ostentati dai più ricchi borghesi che ci rimandano con la memoria all’età d’oro americana – la classe facoltosa che pensa di agire razionalmente a vantaggio dei propri interessi e fissa gli standard cui mira ogni livello della società. Quella classe è stata esposta allo spirito e alla satira di Thorstein Veblen (1857-1929) nella sua opera più famosa, La Teoria della classe agiata, che i padroni del Bazar hanno sempre tentato di relegare ai margini.