La Cina 70 anni dopo

Due sono, secondo noi, le trasformazioni che, dopo il XIX Congresso del PCC, caratterizzano la nuova forma della Cina Comunista: la modifica dell’atto costitutivo del Partito, con l’inserimento nel testo della frase ”nella ideologia comunista con le caratteristiche cinesi introdotte direttamente (il corsivo è mio, Nd.R.) dall’attuale Presidente il Signor Xi Jinping”. L’altra è la nuova dimensione autonoma della ideologia del Partito, e quindi della sua prassi.
E’ questo il “miracolo” promesso alla Cina da Xi Jinping nel discorso che ricordava i 40 anni dalla apertura delle Riforme inaugurate da Deng Xiaoping; un miracolo che ha infatti posto su una “nuova partenza” la vita della Cina, mentre ”il Partito ha rafforzato la Cina in un nuovo orgoglio”, dopo gli errori, soprattutto, della “rivoluzione culturale” ossessione spontaneista, mentre la riforme economiche e sociali potrebbero comunque portare a “tempeste improvvise”.
La Cina non permetterà dunque separatismi, “nemmeno un pollice andrà separato dalla Madrepatria”; e quindi una Cina egemone, ma “senza cercare l’egemonia”.
Lo strumento per far fuori l’egemonismo contemporaneo, in un contesto che ritrova i termini, in Xi Jinping, della “Teoria dei Tre Mondi” di Mao Zedong. Quello capitalistico e sviluppato, di cui fanno parte i “due imperi”, poi i due (sempre due) satelliti e infine il Terzo Mondo, che sarà diretto dalla Cina.
Pechino, quindi, come titolare di uno sviluppo economico che “non pone minacce ad altri” ma, al contrario, e proprio per questo, “è la Cina”, dice Xi Jinping, “che è tale che nessuno può oggi permettersi di dettare ad essa cosa si può o cosa non si può fare nel mondo”, ed è proprio questo, nella sua essenza, il “socialismo con caratteristiche cinesi”, che Xi Jinping vuole affermare sia in Patria che nel consesso internazionale.
L’inizio, sempre secondo la tradizione del PCC attuale, è nell’ideologia di Marx, Engels, Lenin, ma soprattutto all’interno del progetto rielaborato da Mao Zedong, Jiang Zemin, Hu Jintao.
Come si vede, dopo Lenin è finita la sequela tradizionale dei referenti cinesi del marxismo-leninismo, che prosegue con Mao per riprendere, dopo le Quattro Modernizzazioni, temporaneamente, pochi anni fa.
Nulla è ancora deciso, ci vuole ancora un Grande Timoniere per dirigere la modernizzazione socialista della Cina.
Non c’è quindi legame, di fatto, tra la tradizione russa della rivoluzione comunista con quella cinese.
E anche questo è comprensibile: Mosca ha voluto seguire, per poi distruggere, ma senza riuscirci, l’Occidente capitalistico, mentre la Cina si occupava soprattutto del Terzo Mondo, al quale la Russia comunista non apparteneva di certo, Mosca ha poi accettato la guerra fredda, “tigre di carta” inutile, alla quale Pechino non ha mai posto fede, ha infine imitato il capitalismo, senza averne mai il reale potenziale; mentre la Cina costruiva il suo socialismo razionale (e nazionale) nelle campagne, senza imitare, almeno dopo il Grande Balzo in Avanti, dal 1958 al 1961, l’accumulazione capitalistica europea, ma nemmeno la strage colossale delle folli “riforme agrarie”, tra Crimea e Ucraina, dei bolscevichi russi.
Per Xi Jinping, oggi, il risultato della applicazione del Suo pensiero è quindi la definitiva “cinesizzazione” del socialismo e del Partito.
Gli effetti di questa nuova tradizione operativa e politica di Xi Jinping si vedono, in primo luogo, nella migliore efficacia del governo cinese.
Il governo socialista di Xi si adatta alla società cinese, per trasformarla, come un guanto su una mano.
E’ finita, proprio con l’azione di Xi Jinping, la tradizione dottrinaria e astratta del marxismo-leninismo cinese. Oggi, la Nazione cinese e il suo progetto storico, il socialismo, sono la stessa cosa.
Il progresso verso il socialismo, insito ormai nella più intima trama del Partito, dello Stato, della Società, è ormai quello, lo stesso, della affermazione, pacifica e multilaterale, della Nazione cinese come tale.
Senso della Realtà, soprattutto aderenza alla realtà della società cinese, ma insieme modernizzazione profonda del sistema, della società, dello stesso Partito Comunista Cinese.
Quindi, per Xi, ci sono oggi quattro traguardi a portata di mano: il primo è il socialismo con caratteristiche completamente cinesi, di cui oggi, proprio grazie a Xi Jinping, la Cina si è dotata in pieno, poi vi è l’ideologia del Partito, che è sempre alla direzione dello Stato e quindi è responsabile dell’evoluzione nazionale della Nazione e del Popolo, ma che ormai fonde l’interesse nazionale con il socialismo, infine vi è la riaffermazione del ruolo del Partito sullo Stato, che può essere ancora indietro rispetto al progetto di Xi Jinping, infine la cultura del Partito, unica e sola guida del Partito stesso.
Ovvero, in altri termini, rafforzare la cultura del Partito per migliorare il suo ruolo di esempio, comando, linea e come direzione del futuro.
Il Partito, secondo Xi Jinping, ha come obiettivo primario, per tutta la Nazione cinese, e non per il suo solo proletariato, il miglioramento e, soprattutto, il consolidamento attuale delle condizioni di vita del Popolo.
Il Benessere è uno degli obiettivi della “Linea di Xi Jinping” che domina il Partito, oltre alla costruzione progressiva, e per tutti, di un Paese Grande (nessuna limitazione al prestigio militare e strategico della Cina), Forte (nessuna limitazione alla proiezione geopolitica della Cina socialista), Civile (nessuna limitazione alla evoluzione culturale e ideologica del popolo), Democratico (la massima rappresentanza, dentro il Partito, a tutte le voci della società cinese) e Armonico, ovvero senza lo squilibrio tipico della società rispetto alla evoluzione della direzione politica di essa. Forze Produttive e Rapporti di Produzione, per dirla in termini marxisti.
Il Partito detta quindi la linea, la società armonica cinese lo adatta ad ogni condizione e situazione.
E’ in questo senso che si può parlare, oggi, sotto la direzione di Xi Jinping, di un particolare “Risorgimento della Cina”.
Un Risorgimento di massa, per aggiungere un ricordo delle teorie di Antonio Gramsci, che evita quindi il difetto di essere, come quello nazionale italiano, una “riforma diretta dalle sole élites” e limitato nei suoi scopi.
Rinascita di massa, allora, nazionale, culturale, diffusa in tutte le classi del Popolo, del Partito, della Nazione.
Non si creda che questa fase storica si basi su una memoria limitata e artificiosa. O ad hoc.
Fin dal luglio 1921, alla fondazione del Partito Comunista Cinese, a Shangai, quando, tra i membri fondatori, vi fu Li Dazhiao, fondatore della Associazione di Ricerche sul Marxismo.
Vi era dall’inizio uno studio autonomo, sulla base delle condizioni materiali cinesi, della dialettica delle classi e del materialismo storico.
Studio quindi delle particolarità della possibile rivoluzione comunista cinese, autonomia di pensiero nazionale e sociale, attenzione massima ai classici del marxismo, mentre i bolscevichi russi ancora non sanno definire la loro strada, tra rivoluzione globale nei paesi capitalisti e quello che già si intravede, il “socialismo in un Paese solo”.
Già nell’agosto 1921, pochi giorni dopo la fondazione del Partito, Zhang Guotao, istituisce il Segretariato dei Lavoratori Cinesi.
Fin dal primo momento, e questo è un segno che rimane e, anzi, si rafforza ancor oggi, la rappresentanza dei lavoratori e il Partito sono quasi la stessa organizzazione che si sovrappone. Non è mai capitato nella storia di nessun Partito Comunista.
Niente “cinghia di trasmissione” stalinista, quindi: il Sindacato e il Partito sono entrambi dentro la società cinese e la trasformano ogni giorno, senza la ormai consunta separazione tra “riforme” e/o “rivoluzione”, segno di un pensiero rozzo e, per molti versi, non tipico della sapienza cinese, dove ogni cambiamento è sia grande o piccolo, e ogni rivoluzione sia piccola o grande. Dipende, ma non è comunque una valutazione soggettiva.
Il rapporto tra i comunisti, appena fondati e il movimento nazionale cinese si solidifica, anche questo, fin dall’inizio, non c’è la lunga discussione tra movimento nazionale e progressista e movimento proletario che, come un controcanto, fa da base all’evoluzione del dibattito dei comunisti europei, occidentali, russi.
Il Kuomintang di Sun Yat-Sen apre subito, allora, le proprie porte ai sindacalisti comunisti cinesi, che caratterizzeranno il movimento sindacale ben oltre i limiti del loro Partito.
Altra tradizione anomala del marxismo cinese rispetto all’Occidente, altra radice del legame, che Xi Jinping ancora appassionatamente sottolinea, tra Partito e Masse.
E’ poi nel 1922 che Mao Zedong, Liu Shaoqi e Li Lisan organizzano i sindacati e gli scioperi di massa, non dei solo operai comunisti, come in occidente, ma nella provincia dello Hunan, mentre, sempre nel luglio 1922, i comunisti cinesi decidono di collaborare con il nazionalismo, allora progressista, di Sun Yat Sen e del Kuomintang, anche in opposizione a Mao, che non è molto d’accordo.
Da questa scelta deriveranno sia la radice nazionalista, senza indugi e retoriche, del PCC, che certe infiltrazioni ideologiche che Mao Zedong, negli anni successivi, cercherà di utilizzare o di eliminare.
E che Xi Jinping ha definitivamente vinto.
Un problema molto serio, quello di adattarsi senza imitare e, quindi, senza assorbire le contraddizioni del capitalismo occidentale, che è ancora nella mente di Xi Jinping.
E’ solo nel 1923 che il PCC e il PCUS siglano poi un accordo di mutua collaborazione.
Quando Deng Xiaoping parlava, riferendosi ai russi, ai “nemici del Nord”, era ancora lui la punta avanzata di una ormai antica tradizione del comunismo cinese.
Nel 1923, comunque, il PCC adotta ufficialmente la “linea di Mosca”.
Mao Zedong entra allora nel Comitato Centrale e collabora attivamente con il Kuomintang.
Ma il prezzo che paga il Kuomintang è molto alto: nel gennaio 1924 il PCC entra a far parte del Kuomintang stesso, ma con tre clausole: l’alleanza con l’URSS, l’unità d’azione stabile con il Partito Comunista, l’azione di massa, egualmente stabile, con i contadini e gli operai.
Tre elementi che determineranno la fine storica, a meno di nuovi e potenti alleati, del movimento nazionalista di Sun Yat Sen.
Qui non c’è un evidente “entrismo”, come si dice nel gergo del comunismo europeo: in Cina, il PCC di Mao è un Partito che si colloca tra le masse, che rappresenta ormai stabilmente, e si raccorda con quella che i marxisti, forse con qualche ingenuità, definiscono ancora “borghesia nazionale”.
Già nel 1924 poi il PCC decide, a Shangai, di intensificare “il lavoro di massa”, mentre preserva la sua organizzazione indipendente dal Kuomintang.
Borghesia nazionale e “borghesia compradora” sono fuse, in Cina; e quindi nel Kuomintang; e allora occorre, per il PCC, rendersi autonomo e lavorare con ogni filone della borghesia rivoluzionaria.
Diversamente da quello che accade, negli stessi anni, in Europa, dove il Partito Comunista nazionale o si erge a nemico di tutti, e soprattutto della borghesia progressista, oppure si rende inutile mantenendosi in un prezioso isolamento.
Oppure ancora accetta l’unità con tutti, iniziando a perdere sé stesso e la propria autonomia politica.
La Rivolta dei Mercanti di Canton del 1924, in agosto, mercanti che sono sostenuti dagli inglesi, è inizialmente una rivolta contro una nuova tassa che è imposta dal governo, che tutti peraltro leggono come emanazione dell’URSS.
La rivolta viene repressa, ma la lotta del PCC per non farsi identificare come semplice propaggine dei russi ha successo.
Nasce, in questa occasione, la Banca Centrale del Kuomintang.
Accade a Canton, mentre, poco dopo, la Cina si trova ossessione ripetuta e razionale, in quattro zone dominate da deboli coalizioni militari.
Ecco il nesso, reale, empirico, del socialismo con l’unità nazionale, in Cina.
Senza unità del popolo cinese, a parte le identità imposte dal colonialismo (e da qualche Paese “amico”, oggi come ieri) non vi può essere unità della nazione e, quindi, dello stesso socialismo che, se non è diretto dal partito del popolo cinese, ripete inevitabilmente i “cento anni di umiliazione”.
Mao Zedong, il 1925, ai primi di maggio, infine, viene eletto presidente della federazione rurale, sempre sotto l’egida nazionale e progressista, allora, del Kuomintang.
Senza analisi della condizione contadina, quindi, che non è semplice “arretratezza” produttiva, secondo i vecchi bolscevichi russi, non c’è nessun comunismo cinese che non si rifaccia direttamente ad una analisi specifica e materiale, sempre, della condizione contadina.
Non si può quindi ridurre la questione contadina al tema, banale, e non a caso utilizzato sia dai comunisti bolscevichi russi nelle loro “riforme” efferate, che dai capitalisti degli anni ’60 del XX secolo, gli anni del “decollo”, del “sottosviluppo”.
La campagna non è sottosviluppo. E’ sfruttamento, casomai.
Senza sottosviluppo cosa mangiamo allora, bulloni e dadi?
E quindi il PCC, come vediamo, nasce nel contesto sindacale e realistico delle tutele dei bisogni della vasta maggioranza Popolo, che è contadina, mentre mantiene una solida e identitaria identità politica e ideologica di classe. Come oggi, peraltro.
E arriviamo al 1928, quando le truppe di Chiang Kai Shek, il Kuomintang, occupano Pechino.
In quell’anno, sempre rifacendosi alle masse contadine, il PCC dà l’ordine della “insurrezione del raccolto di autunno”, innescando e risolvendo la vera origine della lotta di classe in Cina: lo scontro tra contadini poveri e i proprietari terrieri.
Nel 1929, arriverà la legge di confisca delle terre di Xing’guo e del nuovo codice civile: arriva proprio allora la confisca delle terre demaniali e di quelle appartenenti ai proprietari terrieri.
Inizia poi la guerra contro i giapponesi, che sono entrati in Manciuria.
Nel febbraio 1936, l’Armata Rossa marcia verso Shiensi e recluta, anche con l’appoggio del Signore della Guerra locale, migliaia di contadini.
Il PCC richiede la non-requisizione di tutte le terre di chi ha combattuto i giapponesi.
Nazione e Popolo, ma anche trasformazione socialista dell’economia. Tutte e tre le cose insieme. Come oggi.
Si arriva anche, dopo tanti atti di guerra, al tragico massacro di Nanchino.
Una mattanza feroce degli abitanti locali da parte dei giapponesi. Sono 350.000 civili annientati.
Le città principali della Cina cadono tutte in mano dei giapponesi, che intanto hanno stabilito la capitale a Pechino.
Arriviamo al 1943, non ancora la guerra è finita: il PCC adotta la linea della “Risoluzione dei Numerosi Problemi Storici” che ha la diretta supervisione di Mao Zedong.
Nel 1945 trionfano, a Ya’an le posizioni di Mao, al congresso del PCC, ecco quindi la linea del governo di coalizione.
Chiusura, allora, della questione politica essenziale del PCC cinese: la borghesia nazionale, ormai parte del Partito, chiusura poi della questione sociale, direzione unica e autonoma del PCC, che si occupa della grande riforma agraria, poi la questione militare e strategica, giò allora fuori dal campo del PCUS, infine unicità del potere dopo la ormai evidente sconfitta del Kuomintang.
Quasi come oggi.
La Banca Popolare Cinese nasce, poi, nel 1948 come istituto di emissione.
Essa garantisce soprattutto i fondi necessari alle imprese per raggiungere gli obiettivi del piano quinquennale.
Autonomia dal circolo finanziario globale, quando occorre. Come oggi.
Nel 1949 l’Armata Rossa ritorna a Shangai liberata.
E la Belt and Road Initiative? La Lunga Maria di oggi? Che ruolo ha attualmente?
E’ in gran parte una eredità di Hu Jintao, e della chiusura dei temi sui confini cinesi, realizzata da Jiang Zemin.
Sul piano predittivo, si tratta di 65 Paesi con un interscambio massimo, a tutt’oggi, di 2,5 trilioni di Usd in dieci anni con un progetto come questo che ammonta, secondo le previsioni, al 26% dell’attuale commercio estero cinese.
Un modo per uscire, per allontanare i confini pericolosi terrestri, per eliminare infine, quindi, l’estraneità della Cina al mondo contemporaneo.
Non una guerra “fredda” si noti bene, ma una progressiva integrazione multi e bilaterale.
Quindi, messa in sicurezza dell’approvvigionamento energetico, per la Cina, con la Belt and Road, poi anche l’ uscita dalla spirale tra QE monetario e espansione commerciale, grazie alla sola dimensione colossale della Belt and Road, infine uno sbocco per gli investimenti esteri diretti, di cui la Cina ha estremo bisogno.
Una sommatoria attuale che risponde alle tre linee con le quali il Partito si è fondato: interesse nazionale prima di tutto, unità della Nazione, sviluppo economico.