La Chapelle nella “Chapelle” Palatina. Quando la retorica espositiva limita il volo dell’artista

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(da Youtube)

A Milano David La Chapelle rappresentò la Cappella Sistina e Sgarbi si divertì a dire che “La Chapelle fa la chapelle”. A Napoli, da dicembre 2021 a marzo 2022 La Chapelle è DENTRO la chapelle, che in questo caso è la Cappella Palatina all’interno del Maschio Angioino. Quaranta opere, tra fotografie e negativi di fotografie ritoccati a mano dall’artista stesso. Non poco. Considerato che in un tempo ormai remoto il giovanissimo La Chapelle fu ingaggiato da Andy Warhol come fotografo per la sua rivista “Interview”, e che spesso e volentieri la sua arte è definita come Rinascimento pop, e ancora, che pare che la mostra sia stata studiata proprio per essere esposta nella Cappella palatina, l’altissima aspettativa del visitatore è più che giustificata. La fama dell’artista, il costo del biglietto: 14 euro, sembrano preludere a qualcosa di diverso da molte delle esposizioni, gratuite o quasi, cui la città è spesso abituata. Il Rinascimento pop, dunque, trova temporaneo alloggio tra le pregevoli sculture del Rinascimento napoletano della Cappella palatina, opere di artisti che lavorarono all’Arco di Trionfo di Alfonso di Aragona. Un bel confronto, non c’è che dire. – Ma Pippo non lo sa- L’antico refrain calza perfettamente al turista che entra nella cappella e si trova circondato da foto senza cornice, attaccate con chiodini ai supporti, tutte coloratissime e che sembrano a tratti riprendere qualche antica opera rinascimentale ma con volti moderni, alcuni persino noti, posture e costumi molto distanti da quelle antiche rappresentazioni. E Pippo continua a non sapere, e neanche a immaginare, per cui completa ligio il giro e va via, forse rimpiangendo i soldi per l’acquisto del biglietto. Avrà forse colto la malinconia, l’inquietudine il senso di caducità. Forse. Pippo non lo sa. La qualità dell’esposizione è indiscutibilmente altissima: colori brillanti e ambientazioni che sconfinano nel paradosso, l’epico e il quotidiano si alternano nella medesima rappresentazione e si rivelano esattamente per quel che sono: escamotage estetici per parlare del mondo che abitiamo, che è spesso coperto da un pesante velo di incertezza e senso di precarietà. Il visitatore di media cultura, magari poco strutturato sullo specifico artista, è accolto da alcune quinte espositive costellate di opere dell’artista. Cerca di comprendere il suo percorso di vita, la punteggiatura delle sue tappe importanti attraverso le opere esposte e, percorrendo il dedalo installato, giunge infine all’antico abside rettangolare, dove antichi reperti nostrani fanno da sfondo ai due espositori con i negativi ritoccati a mano da La Chapelle stesso. Si è colpiti dalle strutturine che le contengono, quasi due paraventi, si guardano le rappresentazioni. E poi si va. Più divertente cercare di riconoscere i volti noti che l’artista ha voluto dare ai personaggi delle sue opere. Effettivamente complicato cogliere nelle diapositive l’angoscia e il senso della caducità della vita a fronte del mostro AIDS che negli anni ottanta stroncò tante vite, e che amava particolarmente quelli che sceglievano di vivere senza freni. Nessun segnale interpretativo rilevato. Eppure La Chapelle lasciò New York proprio perché legata al ricordo di amici uccisi dall’AIDS. Si sarebbero potute inquadrare le diapositive con una struttura sulla quale le firme degli amici dell’artista morti di AIDS, potessero travolgere emotivamente il visitatore e proiettarlo nella più profonda emotività del fotografo attraverso un processo autoidentificativo. La Chapelle cerca il bello nel kitsch, dove le persone non si aspettano di trovarlo: il visitatore doveva essere guidato in questa ricerca che gli avrebbe regalato intensa emozione. L’artista dice di essere lontano dalla vita di tutti i giorni, “perché la vita è troppo triste”. Il visitatore doveva essere trasportato nel suo mondo inquieto. L’interpretazione avrebbe potuto fare molto, lo spunto emotivo, avrebbe completato l’opera. Le tecniche interpretative sono fondamentali per suscitare emozione nel visitatore e permettono ad una mostra di abbandonare la retorica espositiva che tiene il pubblico lontano dal mondo dell’artista.