La cappa soffocante

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di Giuseppe Coco

Le Olimpiadi appena finite sono state un successo per lo sport italiano. Con 40 medaglie e l’ottavo posto nel medagliere, prima di nazioni più grandi e ricche di noi (come la Germania), superati da questo punto di vista solo dai miracolosi olandesi, siamo sicuramente una superpotenza dello sport. Ciò denota sia una buona gestione (miracolo!), che una buona propensione alla gara da parte degli italiani. Eppure, da un altro punto di vista sono state olimpiadi da dimenticare. Dal primo giorno, l’evento sportivo è stato sequestrato, nel nostro paese più che in altri, da instancabili e pretestuose polemiche politiche su giornali e social media.
Non è chiaro perché la cerimonia d’apertura abbia volutamente scelto personaggi e contesti che nulla hanno a che fare con lo sport (sicuramente non sono in grado di competere in nessuna disciplina). La tempesta seguita, ancora più inutile, ha preparato la scena a una quantità di polemiche tutte orientate politicamente in maniera probabilmente ricercata. Il caso della pugile algerina dimostra primariamente la disonestà della maggior parte di chi ha dal primo momento partecipato alla discussione. Di sicuro pontificare sulla questione per una parte o l’altra nell’immediato era semplicemente privo di senso, eppure abbiamo assistito a immediate prese di posizione granitiche di individui con le competenze più disparate, in genere totalmente irrilevanti, secondo schieramenti politici precisi. Su una questione che richiederebbe soprattutto un socratico distacco e la dichiarazione programmatica che non ne sappiamo abbastanza (almeno giornalisti, politici ed economisti); che si tratta di una questione complicata, da affrontare in maniera scevra da ideologie.
Ma ancora peggio è stato lo stillicidio di commenti ad ogni vittoria o vittoria mancata, attribuendo a ognuna di esse un significato politico. Se vince una persona omossessuale si tratta di una vittoria doppia per alcuni, di una iattura per altri. E, ancora più folle, la vittoria di un italiano di colore è motivo di maggiore giubilo per alcuni, dovrebbe esserlo di disappunto per altri. Ma davvero si può essere scontenti perché chi vince è parzialmente diverso dagli italiani del passato, purché si senta italiano? Non dovremmo festeggiare il fatto che siano felici di gareggiare e vincere con i nostri colori? E alla stessa maniera si può davvero essere più contenti solo perché a vincere è uno che non ti somiglia piuttosto che il contrario, o addirittura essere felici non per la vittoria in sé, ma solo perché ce l’ha regalata un atleta di origini africane? Idee folli che, al di là del merito, danno alla gioia della vittoria (o al dolore per la sconfitta) una coloritura tetra, di una società che non si diverte più nemmeno con lo sport. Al fondo di questa mentalità c’è una rabbia e una voglia di insultare che promette malissimo.
La polemica più persistente è però forse la più stupida di tutte. Sin dall’inizio ci si è accapigliati sulla opportunità che gli atleti siano competitivi (e quindi delusi in caso di sconfitta) ovvero rilassati e/o cooperativi. Al netto del fatto che ovviamente negli sport di squadra sono necessarie entrambe le doti, non si capisce che senso abbia chiederselo in competizioni nelle quali c’è un vincitore e alcuni perdenti. Che senso ha una gara senza agonismo e voglia di vincere? Alla stessa maniera sarebbe bene essere educati non a voler vincere a tutti i costi, ma a vincere correttamente. Un tempo quindi la questione sarebbe stata risolta banalmente nel senso che la voglia di vincere ‘dentro le regole’ è necessaria per un atleta. Ferma restando poi la libertà di avere qualunque atteggiamento ovviamente e la necessità anche di saper perdere. Invece porre la questione in maniera ideologica come competizione vs cooperazione consente alle anime morte e funzionari di partito di discettare all’infinito. Fino a sostenere che, se perdiamo, sia perché siamo troppo ossessionati con la vittoria (decisamente improbabile) ovvero troppo ‘rilassati’.
Alcuni grandi atleti del passato hanno usato i podi per veicolare messaggi politici. La significatività di quei messaggi, oggi lo sappiamo, è inversamente proporzionale alla sua frequenza. Sicuramente l’abuso di ‘significato’ da parte di chi non partecipa nemmeno alla competizione è un disastro e distrugge il valore universale della sfida sportiva. L’esempio più fulgido: le pallavoliste che si sono rifiutate di commentare i commenti. A chi strumentalizza sistematicamente il fatto sportivo è arrivato il momento di dire: spostati e lasciaci vedere la partita.