La Brexit provoca uno tsunami finanziario: crollano la sterlina e le borse europee

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Disattese le previsioni della vigilia. Caos sui mercati. L’Inghilterra dice addio all’Unione Europea. Perché si è votato nella sola Inghilterra, non in tutta la Gran Bretagna. Ma questo ormai conta poco. Con la maggioranza delle schede “leave” contate nelle urne del referendum consultivo, si è sviluppato uno Tsunami i cui effetti, al momento, sono di difficile previsione anche per i più accorti analisti. Del resto, mai come questa volta, mercati e bookmakers erano allineati sulla stessa lunghezza d’onda, entrambi più che fiduciosi sulla prevalenza di un esito a favore del “remain”. Ma già nelle prime ore della notte, tra giovedì e venerdì scorsi, hanno dovuto invertire rapidamente posizione. E così ha fatto la grande speculazione.

Ad innescare l’operatività sulla “Brexit” piuttosto che sulla “Bremain” è stato il risultato iniziale della circoscrizione di Sunderland, quartiere notoriamente laburista. L’economista scozzese Angus Deaton, premio Nobel per l’economia 2015, aveva visto giusto: “Chi vuole l’uscita dalla Ue lo fa perché non ha visto un miglioramento nella propria condizione economica e avverte un disagio per la diseguaglianza. Pagheranno con il portafoglio il loro voto”, aveva detto qualche giorno fa.

E le conseguenze non si sono fatte attendere. Crollo drammatico della coppia GBP/USD che è scesa da 1,4877 a 1,3229, livello minimo dal settembre del 1985. Un calo superiore al 10%, prima di rimbalzare poi intorno a 1,36. Perdite accusate anche da NOK, EUR e SEK, vale a dire, le monete di Norvegia, Svezia e, ovviamente Europa, tre dei maggiori partner commerciali del Regno Unito. Hanno guadagnato invece terreno le valute rifugio. E l’oro, naturalmente.

Tutto questo, nella notte. All’apertura delle Piazze europee, Milano in testa, lo spread ha ripreso a galoppare (161 punti base) mentre il BTP con scadenza 10 anni si è riportato ad un rendimento dell’1,51%.  Francoforte è arretra del 7,32%.Londra del 4,74%. Parigi dell’8,79%.Milano del 10,55%.

Ma delle reali conseguenze del Brexit – politiche e istituzionali, intendo, oltre a quelle economiche – al momento non è dato del tutto sapere. Nessuno, per ora, riesce davvero ad immaginare che cosa ci sia dietro l’angolo, non solo per il Regno Unito (vedi le questioni interne di Scozia e Irlanda del nord) ma anche per l’Unione Europea.

Da un’elezione all’altra tutta nostrana. Diversamente dal referendum inglese a turbare per niente Piazza Affari – a inizio della settimana – sono state le urne amministrative locali, le quali, domenica scorsa, hanno decretato la vittoria su Roma e Torino delle rappresentanti del Movimento 5 Stelle, pure notoriamente inviso ai mercati e la cui radicalizzazione sulle amministrazioni comunali potrebbe essere presa come un campanello d’allarme in vista del vero test, ad ottobre, con il referendum per le modifiche alla Costituzione, per il governo del Premier Matteo Renzi. In breve, lunedì Piazza Affari già nelle prime ore segnava un brillante 2,36% seguito da tutto il resto delle piazze europee, con il Dax che correva lambendo il 3% (2,95% per la precisione) Parigi che arrivava a 2,8% e il Ftse 100 di Londra a 2,42%.

Delle amministrative italiane si sa ormai di tutto: Roma è in mano a Virginia Raggi e la collega di partito Chiara Appendino si è imposta a Torino su sindaco uscente Piero Fassino, che del Patito democratico non è decisamente l’ultimo. Con riguardo alle grandi città, il partito di governo regge, tuttavia, a Milano e si riconferma a Bologna. Napoli resta nelle mani dell’outsider Luigi De Magistris.

Dal turno di elezioni locali, dunque, il partito del presidente del Consiglio esce alquanto malconcio, sicché – nel dibattito post elettorale – si riaccendono le polemiche che da sempre tengono caldi i toni della politica. A cominciare dalle tasse, della cui riduzione Matteo Renzi da un po’ di tempo, ormai, mena vanto. Ma non è così per Unimpresa, secondo cui i contribuenti del nostro Paese sono i più vessati in Europa, e pagano più imposte rispetto agli Stati Uniti. L’Italia detiene il record di tasse con la pressione fiscale salita dal 39% del 2005 al 43,5% nel 2015, sottolinea l’associazione. Un carico, peraltro, che non è neanche mitigato dal bilancio dei conti pubblici, che sempre lo stesso rapporto indica in un peggioramento complessivo.

Se può consolare, contestualmente è aumentata la lotta all’evasione fiscale. La Guardia di finanza, infatti, in questi primi mesi dell’anno ha beccato ben 3.300 gli evasori totali, sequestrato patrimoni per circa 300 milioni, scoperto 840 società fantasma, costruite esclusivamente per sfuggire al fisco, e 220 casi di trasferimento indebito all’estero di redditi societari.

Posto in questi termini, però, c’è anche chi sostiene che la seconda sia figlia diretta della prima. E cioè, che l’evasione sia diretta conseguenza dell’eccessivo drenaggio di risorse da parte dello Stato.

Tra i carichi che gli italiani debbono sopportare, peraltro – in un’Europa della finanza piuttosto che dei popoli, come è convinzione pressoché diffusa – ci sono anche i costi delle banche. Per la Cgia di Mestre, infatti, con l’1,83% in Italia l’incidenza delle spese operative bancarie è nettamente superiore alle prime 10 economie presenti nell’Unione europea. Al secondo posto l’Austria con 1,62% quindi la Spagna con 1,40, la Francia con 1,36 e la Germania con 1,33%.

Tra i costi, infine, non potevano mancare i carburanti. Nel 2015 gli automobilisti italiani hanno speso 8 miliardi in meno, ma i prezzi alla colonnina comunque continuano a salire. E l’Unione petrolifera – per dire – lancia pure un altro allarme: furti in aumento dagli oleodotti e dai distributori. In aumento anche il contrabbando: +231% in 4 anni.

Cifre da economia da guerra, questa settimana.