L’ora della verità per Deutsche Bank

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L’Autorità di Vigilanza della Banca Centrale Europea (EBA) nell’ottobre del 2014 ha sottoposto a un severo esame (stress test) i bilanci di 131 istituti di credito europei, analizzando la qualità degli attivi patrimoniali al 31 dicembre 2013. Sono stati sottoposti a verifica gli attivi creditizi e non gli attivi di mercato, ovvero i crediti erogati alle imprese e non i cosiddetti prodotti derivati, in quanto si è reputato che, essendo di fatto impossibile valutare su basi omogenee le minusvalenze potenziali di questi strumenti complessi, si è deciso di validare i modelli interni degli istituti di credito. Analizzando le banche tedesche, i prodotti derivati rappresentano mediamente il 27 per cento dell’attivo e l’indicatore di leva finanziaria (rapporto tra attivo patrimoniale e patrimonio netto) è in media pari a 25. A titolo di esempio, Deutsche Bank impiega risorse per circa 1.700 miliardi di euro (una cifra superiore al PIL italiano) disponendo di un patrimonio netto di circa 37 miliardi di euro. Una svalutazione dell’attivo di poco più del 2 per cento, dunque, sarebbe sufficiente ad azzerare il patrimonio della prima banca tedesca. Gli istituti di credito italiani sono invece caratterizzati da un maggior peso di titoli di Stato all’interno dell’attivo patrimoniale (15 per cento circa), da una percentuale irrisoria di prodotti derivati e, infine, da un indicatore di leva finanziaria mediamente inferiore a 15. Il risultato degli stress test del 2014 è stato decisamente sorprendente: l’esame è stato superato senza difficoltà dalle banche tedesche, protagoniste di quelle politiche di finanza speculativa che hanno di fatto generato la crisi finanziaria del 2008 culminata con il fallimento del colosso americano Lehman Brothers, mentre non è stato superato da due banche italiane, Banca Monte dei Paschi di Siena e Carige che, nonostante le preventive operazioni di ricapitalizzazione e di svalutazione dei crediti, non hanno superato la simulazione nell’ipotesi di scenario economico avverso, mostrando un deficit patrimoniale rispettivamente di 2,1 miliardi e 814 milioni di euro. Lo scorso 29 ottobre, a circa un anno di distanza dall’esito degli stress test, i vertici di Deutsche Bank hanno annunciato una perdita record di oltre 6 miliardi di euro nel terzo trimestre del 2015, generata da forti svalutazioni all’interno della divisione della banca d’investimento (prodotti derivati), dalla perdita di valore di due partecipazioni, Postbank e la cinese Hua Xia Bank e infine da maggiori accantonamenti legati a contenziosi legali. La banca ha annunciato un radicale piano di ristrutturazione, che prevede entro il 2018 34mila esuberi, la chiusura di 200 filiali in Germania e di tutti gli sportelli presenti in Argentina, Cile, Messico, Perù, Uruguay, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Malta e Nuova Zelanda. L’esecuzione del piano costerà all’istituto tedesco circa 3,8 miliardi di euro sotto forma di oneri di ristrutturazione, determinando la sospensione del dividendo nei prossimi due esercizi. C’è dunque da chiedersi come sia possibile che, a distanza di un anno dall’accurata analisi dei severi ispettori dell’Autorità di Vigilanza Europea, in un periodo in cui l’economia europea sta invertendo la rotta in senso positivo e di conseguenza le principali banche italiane stanno finalmente ritornando alla redditività, sia emersa una perdita così clamorosa all’interno dei conti della prima banca tedesca. Avevamo già denunciato (cfr. Caccia al Valore del 1 novembre 2014) che i criteri contabili adottati dell’EBA lo scorso anno per analizzare gli attivi degli istituti di credito europei erano stati selezionati in funzione del peso politico esercitato nei confronti della Banca Centrale Europea dal governo tedesco e dalla Bundesbank, evidenziando come l’indicatore di leva finanziaria di Deutsche Bank in quel periodo fosse addirittura pari a 36. Le conseguenze per la Germania e per Deutsche Bank saranno molto più lievi di quanto non siano costati i provvedimenti imposti dall’EBA alle banche europee dal 2011 in poi, le quali hanno dovuto effettuare corpose ricapitalizzazioni nel pieno della crisi che hanno favorito l’allontanamento del sistema bancario dalle imprese proprio nel momento in cui occorreva fornire il massimo sostegno all’economia reale, favorendo in ultima analisi l’ampliamento del divario tra economie con surplus di bilancio (Germania) ed economie con deficit (Italia, Francia e Spagna in testa).