Interpretazione. Buona la prima!

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Anche il Madre può piacevolmente sorprendere! Si torna al museo, si proprio quello di via Settembrini a Napoli, per un occasione davvero ghiotta: la mostra fotografica di Mimmo Jodice, napoletano e genio della fotografia. Di quelli veri, non un “eccellenza” come quelle che ogni tanto ci sbandierano, la cui qualità raramente passa la linea gotica. Tutti conosciamo il Madre come “il museo dell’era Bassolino”, il museo nel quale con un tentativo disperato di attirare pubblico fu improvvisata una poco credibile discoteca, iI museo in cui negli anni scorsi, nei caldi giorni del ferragosto napoletano, si riscontravano, proprio nell’orario “di punta”, la presenza dei miei familiari e di soli altri 6/8 turisti. Il Madre è il museo che Sgarbi ha tanto vituperato, il cui ingresso aveva quell’assetto shabby/immacolato, quasi ospedaliero, che ispirava distanza. Era. Entrare oggi al Madre e non riconoscerlo sono tutt’uno. Investiti da una esplosione di colori, dall’arancio al giallo con un tocco d’azzurro che porta il sole della città anche nei palazzi dove “nun trase maie o’sole”. E’ la metà dell’atrio del museo che si duplica negli specchi con cui l’artista ha pannellato cornici pareti e pilastri dell’altra metà: uno spettacolo. E’ opera del maestro Buren, il mago delle architetture ad alto impatto visivo. Buren è anche l’autore della facciata dell’Arin a Ponticelli, di un altro raggio di sole che illumina questa volta le costruzioni della “167” e la loro mediocre manutenzione. Si entra dunque in un opera d’arte. Ed è qui che una guida speciale, un fotografo, ci introduce alla mostra. Un fotografo che spiega un fotografo. Non è una reclame, è proprio una vera esperienza interpretativa, la prima a Napoli, che riesce ad incuriosire, coinvolgere emozionare. Una visita perfetta che finisce con quarantaquattro minuti di proiezione di fotografie che se possibile emozionano ancor di più. Bene, si potrebbe dire, e allora? E allora resta un inizio sanguinante. Un impatto visivo importante, la consapevolezza di far parte per un minuto di un opera d’arte grazie a quella mirabile installazione di specchi e poi…il nulla. Nessuno che spieghi i come, i perché, il semplice fatto. Interpretazione o no. Basta poco però a sollecitare l’interesse: una domanda su quel rinnovamento di colori e specchi, la specifica che si tratta di pannelli e non pittura e improvvisamente i visitatori come formichine impazzite cominciano a esplorare questo spazio, a mirarsi negli specchi. Qualcuno fa un selfie: è la moderna consacrazione di un successo. Il nuovo direttore che in pochissimo tempo ha stravolto numeri, modi e la storia di un museo che sembrava nato per fallire, ha però lasciato al caso la comprensione di quegli spazi, il primo impatto col museo. Non tutti sanno, non tutti sono informati, l’anima e l’intelletto devono essere sollecitati. Buren ha interpretato con gli specchi e i colori l’architettura, e lo spirito di un luogo che, sebbene scrigno di vere opere d’arte, non emozionava. Dicono che l’installazione di Buren sia provvisoria, che i pannelli colorati e specchiati presto potrebbero essere smontati. Sarebbe il ritorno al bianco monacale, sterilizzato, che non abbraccia ma impone distanza. Modanature e linee appiattite di nuovo in un ambiente privo della luce del sole. Anche il Partenone è bianco, ma è una struttura tutta aperta e tra le colonne spunta l’azzurro del cielo, la luce accarezza le scanalature e il tempio si cristallizza nell’ambiente naturale. Qui no. Qui c’è bisogno di colore affinché nella penombra affiorino tutte le particolarità dell’architettura. La distanza dal visitatore che dopo il binomio esplosivo Jodice-Buren speriamo non torni mai più, può essere per sempre annullata evitando lo smontaggio degli specchi e dei pannelli colorati e ancor di più con la permanenza della proiezione su Napoli e i napoletani. Il contrasto è fortissimo: dal colore pieno dell’atrio al piano terra, al buio della sala, alle immagini in bianco e nero sul fondo di essa. Si avverte fortissimo il legame con la vita delle persone, quelle stesse che siedono, piccola folla, in quell’ambiente buio e non solo per riequilibrare la vista dopo l’assalto piacevole ma coloratissimo dell’ingresso. In quella sala l’emozione e l’interesse sono palpabili, le foto di Jodice trasmettono un senso d’identità di cui quella struttura ha bisogno come il pane. Sarà stato il caso, sarà stata programmazione, ma questo risultato così importante non può andare disperso. E diciamolo! Ogni tanto qualcosa di buono c’è. Non sprechiamo i doni dell’interpretazione.