Industria 4.0, l’onda lunga di una misura intelligente

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I risultati di oggi sono conseguenza delle scelte di ieri come i risultati di domani saranno conseguenza delle scelte di oggi. E se è vero che anche il caso va aiutato a prendere le sue decisioni non dovrebbe stupire più di tanto la notizia che indica nell’Italia il paese più virtuoso d’Europa nella capacità di recuperare e superare le posizioni in termini di ricchezza (Pil) antecedenti al diffondersi del Covid 19.
Ne parla, da ultimo, Marco Fortis in un documentato articolo pubblicato nei giorni scorsi sul Sole 24 Ore. Qui si comprende come il nostro apparato industriale abbia reagito alla crisi finanziaria prima e alla pandemia poi meglio di quelli di Francia Germania e Spagna che sono i nostri più diretti partner e concorrenti. Una circostanza dovuta alla bravura degli imprenditori nostrani, certo, ma non solo.
Un merito particolare va riconosciuto – e Fortis ne dà atto – a quel variegato e connesso sistema di incentivi rivolto all’ammodernamento degli impianti (automazione, digitalizzazione) e al conseguente adeguamento dell’organizzazione aziendale, con una forte spinta alle attività di aggiornamento e formazione dei lavoratori, che va sotto il nome di Industria 4.0 (poi Impresa 4.0).
Questo pacchetto fortunato di misure è stato pensato e lanciato durante il governo presieduto da Matteo Renzi ricevendo una spinta fondamentale dall’allora ministro dell’Industria Carlo Calenda che se ne fece paladino. L’ispirazione venne tuttavia da Confindustria, al tempo presieduta da Vincenzo Boccia, che trovò negli interlocutori politici una non scontata attenzione e una comprensione piena.
Fu una stagione molto interessante contrassegnata dall’affermarsi della politica dei fattori contrapposta a quella dei settori troppo a lungo perseguita senza successo. Il presupposto è che non esistono settori innovativi per definizione e altri che non lo sono ma imprese che innovano e altre che non lo fanno in qualsiasi campo operino. Sicché occorre premiare le prime con strumenti adeguati.
Siamo negli anni 2016/2018 e il sistema imprenditoriale italiano attinse con tanta convinzione all’opportunità fornita che gli investimenti in macchinari conobbero una crescita mai vista prima. Il Made in Italy, sostenuto da una rinnovata capacità competitiva, trovò un’affermazione sui mercati internazionali la cui dinamica non si è ancora esaurita con l’export che supera i 600 miliardi.
Il provvedimento ha poi avuto fortune alterne: fortemente limitato dal Conte 1, rivalutato dal Conte 2, sostenuto da Draghi. Oggi è considerato un pilastro della politica industriale nazionale e va dato atto agli attori dell’epoca di averci visto giusto. Il completamento di quell’idea fu la politica dei fini che incorporava un’inedita considerazione del tempo come elemento imprescindibile dell’efficacia.
Molti di questi valori sorreggono il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che deriva dal progetto europeo conosciuto come Next Generation Ue e del quale l’Italia è il massimo percettore del Continente con il vantaggio di poter disporre di grandi risorse per la crescita e il vincolo di doverle in gran parte restituire. Ed è chiaro che l’attuale sistema delle regole non è adeguato all’obiettivo.
Per non perdere l’abbrivio e raggiungere i nuovi sfidanti traguardi che ci siamo dati occorre recuperare lo spirito riformatore che di tanto in tanto ha attraversato il Paese per essere quasi sempre ricacciato indietro da chi se ne sente minacciato. Ed è compito dell’intera società guardare avanti superando i mille egoismi che si sono nel frattempo radicati minacciando il benessere comune.