Data la quantità e la virulenza dei gruppi che prendono parte alla guerra siriana, ormai al suo sesto anno di scontri ininterrotti, gli scenari possibili, in linea di principio, sono due.
O una pace instabile che frazionerà il sistema politico e territoriale di Damasco come accade oggi in Libano; oppure ancora una lunghissima guerra di attrito, senza soluzione di continuità, come nei Balcani degli anni ’90, nella Ucraina attuale o nel Corno d’Africa, sempre nei nostri anni.
Una “long war” che nasconde il vuoto strategico e geopolitico di chi l’ha organizzata.
Il fine del conflitto era, inizialmente, quello di chiudere l’area siriana alla proiezione di potenza iraniana verso il Mediterraneo ma, nel caso di una long war, nessuno ci guadagnerà, nessun Paese potrà mai calcolare un surplus geopolitico dall’ attuale scontro in Siria.
Le fratture culturali e militari sono ben note: la divisione tra sunniti e sciiti, spesso artatamente manipolata da entrambi i gruppi religiosi, la frattura tra il potere religioso e quello “laico”, per quanto si possa usare questa categoria nel Medio Oriente, poi tra le due potenze emergenti nell’area, ovvero Turchia e Iran, infine tra le 68 vecchie potenze occidentali della Coalizione a direzione Usa e la Federazione Russa.
Dalla analisi della guerra siriana verrà quindi la dimensione e la forma del nuovo Medio Oriente.
Gli occidentali, che non hanno più una vera teoria della guerra, leggono la trama degli scontri solo attraverso i titoli dei loro giornali e le ossessioni psicotiche e irrazionalistiche dei loro elettori.
Il terrorismo, lo ripetiamo da tempo, non è mai un concetto strategico, l’Islam della Spada opera contro gli “infedeli” tramite il jihad, che usa anche il terrore ma non è solo il terrorismo.
Ecco dove risiede il paradosso geopolitico degli Usa in Siria, dove la rivolta dei Fratelli Musulmani contro Bashar el Assad e le successive azioni jihadiste contro il regime baathista privano Washington di sponde sul terreno del tutto affidabili per il progetto di democratizzazione del mondo arabo e islamico.
Le rivolte arabe non sono simili a quelle dei gruppi democratici operanti, prima del 1989, dentro il Patto di Varsavia, le rivolte arabe dentro e dopo le “primavere” sono state soprattutto rivolte economiche, legate alla fine del welfare state nasseriano o nazionalista; il tutto mentre la crisi fiscale degli Stati arabi, determinata dalle “ricette” del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, strozzava la spesa pubblica.
Il sostegno nordamericano poi alla congerie dell’Esercito Libero Siriano, spesso composto e sostenuto da dei gruppi jihadisti, il giuoco autonomo di Ankara, che ormai non si cura più della NATO, l’efficacia del sostegno russo a Bashar el Assad, sono tutte variabili che complicano ulteriormente la situazione dello scontro in Siria.
Mentre gli Usa addestravano “ribelli” che non compivano operazioni o, peggio, passavano armi e bagagli al Daesh-Isis; oppure si univano ai curdi creando una tensione durissima con la Turchia, la Russia identificava invece correttamente sia l’amico che il nemico: il regime di Bashar el Assad, l’amico che con l’aiuto di Mosca poteva vincere, e il nemico primario, jihadismo del “califfato” sirio-iracheno.
Certo la vittoria, prevedibile, della Federazione Russa in Siria non consentirà, in futuro, accettabili concessioni a Mosca, da parte degli Usa e della Ue, per risolvere la questione ucraina.
E questo era certamente un retropensiero dei decisori della Federazione Russa.
Ma è comunque un buon inizio, oggi infatti Mosca è militarmente credibile, mentre gli Usa e i suoi alleati non hanno davvero fatto una bella figura, nell’asse sirio-iraqeno.
Quindi, per riprendere il nostro discorso sul futuro della Siria dopo il conflitto o, meglio, dopo la cessazione dei momenti più duri del conflitto, avremo a che fare con un regime alawita che terrà le città principali e le coste mediterranee, poi l’area curda, divisa tra la piana di Afrin e quella del Nord Est, una zona che potrebbe fare incontrare gli interessi degli Usa e dei russi.
Sia Mosca che Washington vogliono infine controllare la Turchia, che non può e soprattutto non deve diventare la potenza di riferimento per tutti i sunniti siriani, ovvero la maggioranza della popolazione.
Qui vanno bene, come massa di manovra, anche i curdi, che possono tutelare Israele da Nord.
Poi c’è l’area sunnita, che sarà ancora per molto tempo in preda ai numerosi gruppi jihadisti che oggi si muovono tra il cosiddetto “califfato” e l’Esercito Libero Siriano; mentre il confine con l’Iraq potrebbe permettere a queste formazioni di evitare lo scontro e di ricostruire progressivamente il loro potenziale bellico.
Isis-Daesh, poi, ristretto ormai tra Deir-Ezzor e Raqqa, ha ancora la possibilità di creare ulteriori problemi e di reclutare nuovi militanti sunniti sia dall’estero che dalla vasta area sunnita della Siria.
Gli Usa, inoltre, vogliono evitare soprattutto che un solo gruppo di Paesi domini su tutto il Medio Oriente e, in particolare, che il jihadismo divenga determinante proprio nell’arco dei Paesi che formano, da sempre, il sostegno strategico a Washington nell’area.
Ma occorre stare attenti: l’Egitto, indebolito dalle solite e sciocche “primavere arabe”, è oggi molto diverso da quello di Mubarak, la Giordania ospita tanti rifugiati siriani che ormai compongono il 20% della sua attuale popolazione, l’Arabia Saudita, dati gli attuali prezzi del petrolio, non può più sostenere le proprie iniziative militari e di soft power.
L’Iran, poi, vuole soprattutto creare una sua area di protezione e di controllo dai suoi confini verso il Mediterraneo, sostenendo gli stati amici (Qatar, Oman) e rendendo credibile la sua minaccia verso le grandi potenze sunnite.
Altro dato, da non dimenticare mai, è che la attuale Presidenza Trump ritiene il controllo delle mosse di Teheran e l’eventuale scontro con l’Iran in Siria uno dei suoi primari obiettivi nel quadrante sirio-iraqeno.
Ma Putin non accetterà mai questa situazione, dato che Mosca, in Siria, è fortemente garantita sul suo fianco orientale e meridionale dai Pasdaran e dalle forze “volontarie” iraniane, composte spesso da sciiti afghani o iraqeni.
Gli iraniani vogliono allora, nel quadrante siriano, garantire la loro stabilità interna in vista della prossima morte di Ali Khamenei, creare una nuova e forte deterrenza contro Israele, divenire i fornitori primari di sicurezza per il regime siriano, il Libano e le formazioni dell’”Asse della Resistenza” sciita, senza mai dimenticare le formazioni palestinesi.
L’attacco a Israele sarà, per le formazioni sciite, dal Golan, dal Libano del Nord e dal confine con l’Autorità Palestinese, con azioni di saturazione del campo di combattimento tali da creare molti problemi alle forze dello Stato Ebraico.
E’ questo scenario che si sta creando anche in Siria.
Inoltre, Teheran vuole espellere definitivamente gli Usa dall’Iraq e, in futuro, dalle aree sunnite tradizionalmente vicine a Washington.
L’Iran, poi, non si mobiliterà a fondo per sostenere le operazioni di Assad nel sud della Siria, dato che non vuole, per ora, creare l’occasione di uno scontro definitivo con Israele.
Per quello che riguarda il Daesh-Isis, è estremamente probabile che si debba assistere, nei prossimi mesi, ad una serie di azioni terroristiche del “califfato” in Europa, con una sequenza di operazioni anche in Russia.
Tanto più alcuni Paesi europei sono stati scarsamente toccati dal terrorismo jihadista, tanto più saranno probabili attacchi in quelle zone, ovvero in Germania, nei Paesi Baltici, probabilmente ancora in Gran Bretagna e, quando saranno create le nuove reti “coperte”, in Italia.
Le prime azioni del califfato sul terreno siriano saranno, sempre con la massima probabilità, degli scontri tra le forze del residuo califfato e gli iraniani, probabilmente nell’area di Diyala, per isolare i russi e renderli deboli sul fronte che più interessa al califfato, quello che mette in comunicazione la Siria con l’Iraq.
Probabile anche una azione diffusa di destabilizzazione, da parte del Daesh-Isis, della Giordania, mentre la rete di Al Qaeda avrà come finalità primaria quella di mantenere, proteggere, espandere le reti terroristiche già presenti in Siria e nei Paesi vicini, per poi utilizzarle o in Afghanistan, per bloccare la stabilizzazione del regime di Kabul, o in Arabia Saudita, che potrebbe essere abbastanza debole, oggi, da poter subire un attacco terroristico di grandi dimensioni.
La Turchia, lo abbiamo già in parte visto, è presente in Siria soprattutto per prevenire la costituzione di un Kurdistan autonomo, che farebbe da detonatore per l’area curda attualmente interna ai confini turchi.
Ovviamente, Ankara non vuole nemmeno l’ulteriore espansione dei russi in Siria, mentre controlla da lontano la presenza dell’Iran, il vero competitor della Turchia nell’area.
Ancora, la Turchia sta in Siria per ridurre il peso politico e militare della NATO sulla sua politica estera; e quindi degli Usa e, di converso, anche delle Forze Armate turche, di cui Erdogan continua a non fidarsi del tutto.
Inoltre, Ankara sta in Siria per rafforzare la sua collaborazione strategica con la Russia e per riconnettersi all’attuale proiezione di potenza cinese in Medio Oriente.
Erdogan ne ha piene le scatole del vuoto strategico NATO e intende collegarsi sia con la Cina che con i vari paesi dell’Asia Centrale, per costruire una sua nuova egemonia neottomana.
Non è nemmeno estranea alla geopolitica dell’AKP turco l’idea, poi, di diventare la potenza di riferimento anche del mondo sunnita mediorientale, ora che i sauditi e gli egiziani sono in fase calante, sia sul piano economico che su quello politico-militare.
Ma ci sono altri elementi da calcolare nella nostra equazione strategica siriana: Assad, vada come vada, non ha la capacità di “tenere” la Siria, tutta o in parte, senza uno stabile sostegno russo o iraniano.
Inoltre, la tensione tra Teheran e Riyadh potrebbe scoppiare e radicalizzarsi in ogni momento, soprattutto se la Giordania divenisse instabile e se le reti palestinesi, ormai tutte legate all’Iran, dovessero iniziare la destabilizzazione del regime saudita.
Senza pensare alla eventuale, probabile radicalizzazione della questione curda, che obbligherebbe i turchi ad una presenza maggiore in Siria e a una sequenza di azioni repressive al proprio interno che, probabilmente, isolerebbero sul piano internazionale il regime di Erdogan.
Nessuna soluzione è quindi priva di pericoli per la stabilità del Mediterraneo e della UE ma, naturalmente, nessun governo dell’Unione sembra accorgersi degli effetti a kunga gittata delle tensioni siriane.
Giancarlo Elia Valori