Il post-it che manca all’Italia: “È l’imprenditorialità, stupido”

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Nel dipartimento Italia del grande magazzino “Il Bazar delle Follie” non è esposto, diversamente da quanto accade in quello del Regno Unito, il cartello “È l’imprenditorialità, stupido”. Che ricorda lo slogan “È l’economia, stupido” della campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992. Niente di male si direbbe, se non fosse che è dai numeri dell’imprenditorialità che dipende, infatti, il ritorno alla crescita e all’occupazione. Chi ha perso il lavoro, chi lo cerca per la prima volta, ciò che può augurarsi è il risveglio dello spirito imprenditoriale che a cavallo degli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo inaugurò la stagione del miracolo economico italiano. Se continuano a uscire dal mercato le imprese esistenti e non è abbondante la fioritura di imprese nuove e innovative, l’occupazione non potrà che latitare. Il relativamente basso livello d’imprenditorialità ha contribuito alla debolissima performance dell’economia nell’ultimo decennio. Imprenditorialmente, l’Italia è tra i paesi meno efficienti. Non solo è fortemente distanziata dagli altri grandi paesi dell’Unione Europea, ma la lasciano indietro anche i suoi vicini dell’area mediterranea. Il Global Entrepreneurship Index 2015 (thegedi.org) le assegna il 49mo posto su 130 paesi presi in esame. Regno Unito, Germania e Francia occupano, rispettivamente, la quarta, l’undicesima e la dodicesima posizione. Il Portogallo è 30mo, la Spagna 32ma e la Grecia 47ma. Gli estensori di questa graduatoria hanno trovato diversi punti deboli che fanno scendere l’Italia sotto la media europea della prestazione imprenditoriale. La qualità del capitale umano è il primo “tallone d’Achille”. Sono ancora pochi gli imprenditori con un alto livello d’istruzione – proprio quelli che possiedono motivazioni e capacità per fondare imprese con alto potenziale di crescita. Il paese può allora contare solo su uno scarso numero di startup che intendono occupare almeno dieci persone e si prefiggono di crescere più del 50% in cinque anni, grazie all’intreccio virtuoso delle nuove tecnologie con una sofisticata strategia di business. Insomma, seconda debolezza, tra le specie imprenditoriali del paese sono poche le “imprese gazzelle”, quelle che corrono velocemente. L’Italia è anche debole nel creare reti internazionali sfruttando la vastità del ciberspazio allo scopo di entrare in mercati nuovi e accedere a risorse scarse in casa. E resta sotto la media europea per la percezione delle opportunità imprenditoriali, le competenze necessarie per lanciare una startup, lo status che si assegna all’imprenditore (la scelta di fare impresa non gode di un alto riconoscimento), l’accettazione del rischio imprenditoriale. Un raccolto abbondante d’imprenditorialità innovativa non serve soltanto a creare occupazione. Non meno importante è la forza di gravità che le startup innovative esercitano sulle imprese integrate globalmente. Non può che finire in un molto rumore per nulla quello dalle tante voci che gridano all’attrazione di investimenti dall’estero qualora in Italia non si riesca a cogliere la relazione simbiotica che lega le grandi multinazionali alle startup “gazzelle”.

piero.formica@gmail.com