Il fallimento dei grandi giochi in Afghanistan dal sec. XIX ad oggi

(foto da Pixabay)

Ogni volta che grandi potenze hanno cercato di rendere l’Afghanistan una colonia, sono sempre state sconfitte. L’imperialismo britannico e la sua “missione civilizzatrice” verso le popolazioni arretrate (e quindi terroristiche), missione pari a quella di quando s’imposero come primo pusher di droga all’Impero Cinese con le due guerre dell’oppio 1839-1842; 1856-1860: azione, questa sì, terrorista al massimo.
L’Impero Russo e la sua esportazione della fede ortodossa e dei valori dello zar verso gli afgani barari (e quindi terroristi). L’Unione Sovietica e il tentativo d’imporre la laicizzazione agli afgani musulmani (e quindi terroristi) nel periodo 1979-1991. Gli Stati Uniti d’America che pensavano di creare partiti, democrazia, Coca Cola, minigonne e case da gioco e di piacere, a suon di bombe ai terrristi tout-court afgani.
In questo articolo si cercherà di illustrare il perché l’Afghanistan abbia vinto 4-0, e nel 1919 – grazie alla saggia abilità dei propri governanti – risultasse uno dei soli sei Stati asiatici indipendenti de facto (Giappone, Nepal, Thailandia e Yemen); così almeno gli esperti da bar – che per loro natura credono che la Storia sia quella di Cenerentola e matrigna con sorelle cattive – riflettano sulle sciocchezze che udiamo ogni giorno su stampa e mass-media vari.
Sergio Romano nel suo libro I luoghi della Storia (Rizzoli, Milano 2000), a pagina 196 scrive: «Gli afghani passarono buona parte dell’Ottocento a giocare con le grandi potenze una partita diplomatica e militare – il “Great Game” – la cui regola principale consisteva nell’usare i russi contro gli inglesi e gli inglesi contro i russi».
Ai tempi in cui la geopolitica era una materia proibita e la parola vietata, nei testi di storia delle scuole medie superiori sembrava che gli Stati Uniti d’America e l’allora Unione della Repubbliche Socialiste Sovietiche fossero piovuti dal cielo così estesi come li vedevamo sugli atlanti. Ricordo ancora che nei dialoghi fra professori e studenti di liceo s’affermava che le due potenze non potessero dirsi coloniali, avendo in loro un che di messianico e riscattatore (quindi antiterrorista).
Solo grazie ai film western i ragazzi d’allora comprendevano come le tredici colonie luterane si fossero estese ad occidente in terre che ci davano ad intendere fossero state abitate da selvaggi cattivi da sterminare (quindi terroristi) e da spagnoli incivili in quanto cattolici, da sconfiggere. Inoltre non si osava far studiare l’espansione di Mosca a oriente e a meridione, a rischio che gli studenti liceali – sprovveduti, puri ed entusiasti – comprendessero come la patria del socialismo non avesse presupposti differenti da tutti gli altri imperialismi.
A volte gli studenti udivano del grande gioco o, in russo, tornei d’ombre (turniry teney). Il grande gioco: e cos’era? Oggi è perlopiù ricordato come epopea di libertà degli invitti popoli afgani, ma in realtà la sua soluzione significò l’allenza fra Mosca e Londra, che perdurò almeno alla vigilia della guerra fredda. Una posizione chiave a volte sin troppo trascurata e non solo nei testi scolastici di scientifico e classico, ma pure in molti saggi di autoproclamatisi esperti.
L’avversione britannica nei confronti dell’Impero russo – a parte le alleanze “necessarie” antinapoleoniche nella II, III, IV, VI e VII coalizione – datava al sec. XVII ed essa si aggravò notevolmente nel sec. XIX. E pur se le esportazioni russe di cereali, fibre naturali ed ulteriori colture agricole avevano come approdo la Gran Bretagna – in quanto i latifondisti russi erano ottimamente disposti a svolgere buone relazioni con gli inglesi, per meglio piazzare quei prodotti all’estero – non si ebbero miglioramenti politici. La contrarietà proveniva da Londra più che da San Pietroburgo.
Spesso lo zar Nicola I (1796-1825-55) sia sul finire degli anni Trenta del sec. XVIII, che nel corso del viaggio in Gran Bretagna nel 1842, ed in seguito nel 1850-52, ossia poco prima della guerra di Crimea (1853-56), tentò varie volte di addivenire ad una normalizzazione, però a causa di sospetti e dubbi britannici (che consideravano i russi terroristi) essa non ebbe sviluppi.
Ciò che preoccupava il Foreign Office – creato nel marzo 1782 – era la veloce marcia della Russia verso est, sud e sud-ovest. Londra sentiva il fiato russo addosso dai tre lati dell’India. Gli obiettivi russi in direzione di Istanbul, i successi nella Trancaucasia e gli obiettivi persiani, per non parlare poi della colonizzazione dell’Asia centrale, principiata dal suddetto Nicola I, e condotta con vigore dal successore Alessandro II (1818-55-81), erano per la diplomazia e i generali di Sua Maestà Britannica una palese e minacciosa intimidazione nei confronti della perla indiana.
A nord-ovest del Subcontinente indiano i possessi britannici confinavano col deserto di Thar e con il Sindh (il delta dell’Indo) che costituiva uno Stato musulmano sotto capi che risiedevano a Haidarābād, conquistata dagli inglesi nel 1843. A nord-est del Sindh, la regione del Punjab era stata raccolta in un forte Stato dal maharaja Ranjit Singh Ji (1780-1801-39), che da semplice governatore di Lahore (Lâhau) per conto dell’Emiro dell’Afghanistan, Zaman Shah Durrani (1770-93-1800-†44) era riuscito non solo a rendersi indipendente, ma ad estendere il suo potere anche sul Kashmīr e su Pīshāwar, creando l’Impero Sikh nel 1801, abbattuto dai britannici nel corso delle I (1845-46) e II guerra (1848-49) anglo-sikh; la regione diventò quella che è conosciuta come la pachistana Khyber Pakhtunkhwa (Provincia della Frontiera del Nord-Ovest).
Data l’espansione britannica nei vicini Stati dell’Afghanistan e della Persia, l’influenza della Russia cercava di insinuarsi, cosicché gli inglesi badavano con la massima attenzione a ciò che si svolgeva ai confini del grande “vicino” del Nord.