Il Complice. Capitolo 2

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E’ in rete da oggi il secondo capitolo de “Il Complice”, romanzo breve, pubblicato per la prima volta nel 2006, di Procolo Ascolese, opera vincitrice del “Concorso Letterario Autore di te stesso – Premio Nazionale Campi Flegrei nella categoria editi”.  I prossimi 8 capitoli saranno messi in rete con cadenza settimanale ogni lunedì.
Avvocato cassazionista, (il suo studio legale presta attività di assistenza e consulenza in materia penale), giudice onorario del tribunale penale, Procolo Ascolese si è occupato di numerosi processi penali ed è autore di innumerevoli pubblicazioni tra le quali ricordiamo: “I limiti dell’assunto accusatorio nell’applicazione della legge penale” (Aracne, 2014); “Dentro la giustizia. Breve viaggio nelle dinamiche del processo penale, dal delitto di Avetrana al caso ThyssenKrupp” (Il Papavero, 2021); “L’araba infelice nazifascista. Prunajo al Passo dell’Aprica” (Franco Mauro Editore, 2021).

in foto Procolo Ascolese

IL COMPLICE
di Procolo Ascolese

Secondo episodio 

«Non sarebbe semplice, in verità», cominciò allora con voce tremante Alberto, tentando di aderire a quel garbato e persuasivo invito, «delinearle un panorama delle mie vicende personali… Posso solo dire che, proprio a causa della relazione con una donna sposata, ho avuto i peggiori problemi… Una relazione fatta inizialmente solo di parole, di parole smorzate nel fiume di dialoghi che ci scorrevano addosso ogni mattina, nel camminare insieme verso la scuola dove entrambi insegnavamo, io letteratura e lei, invece, storia dell’arte. Non riuscendo a comprimere i miei sentimenti, li dissimulavo, nella consapevolezza di non avere, in fondo, il diritto di andare oltre l’amicizia. Anche se tante volte avrei voluto farlo, rivelandole i miei reconditi pensieri: ma la stima e la benevolenza di Edvige nei miei confronti rappresentavano un bene troppo prezioso per rischiare di perderlo raccontandole tutto. Ero combattuto, anche perché sapevo che era una donna sposata e, almeno apparentemente, appagata della propria vita coniugale. Il suo atteggiamento, però, sembrava denotare una certa propensione per me… Mi parlava spesso di una figlia, Milena. Anche del marito, ma in modo diverso, con maggiore distacco. Almeno questa era la mia sensazione, o meglio, la mia speranza. Sovente mi consentivo una pausa di riflessione: e allora, immaginandola cenare con il marito, lavarne gli indumenti, dormirgli accanto, pensavo di essere un folle, che la sua gentilezza, in fondo, non meritava di essere fraintesa. Capitava così che riuscivo a evitare di fare il possibile per incontrarla, che riuscivo a distrarmi per qualche giorno. Ma poi, quando mi imbattevo nuovamente in lei, precipitavo verso quella confusione di sensi che mi rendeva cieco, contro la quale la razionalità si smarriva sull’onda di un’indicibile attrazione, che si irradiava leggera e totalizzante nel contempo. Si era insediata nei miei pensieri diventando un chiodo fisso, una dolce ossessione, un altalenare di vagheggiamento e frustrazione. Talvolta la sua pelle chiara, profumata, i suoi lunghi capelli lisci e, a tratti, lievemente ondulati, il suo sguardo radioso, tutta quella sua eterea fisionomia penetrava perfino nei meandri del sogno; forse proprio quando cercavo di rimuoverla dai miei pensieri durante il giorno. E sentivo che stavo per esplodere. Ero così preso, così invasato, così ondivago tra l’immaginazione e la realtà, così lacerato dallo stridente connubio tra essere e dover essere, tra inconsistenza e coscienza, che un giorno, nonostante i sensi di colpa, mi lasciai andare. E così, il muro della nostra coscienza etica andò in frantumi…».

«Vai avanti!», esclamò il frate.

«Inizialmente decidemmo di relegare la nostra tresca sotto un manto di assoluta segretezza, in attesa che la frattura nei loro rapporti culminasse nello scioglimento del nodo coniugale. Mi diceva che il matrimonio le aveva fatto conoscere un uomo diverso da colui che credeva di amare; mi giurava che una insanabile incomunicabilità si trascinava da anni, deteriorando il loro rapporto; mi ripeteva che l’ebbrezza della comparsa all’orizzonte di un nuovo partner aveva solo contribuito ad allontanarla dal marito; mi assicurava che quell’uomo ormai esulava del tutto dal suo spazio affettivo, al punto da tenerla legata a lui solo l’amore verso la figlia. Decisero, quindi, di separarsi e che la piccola sarebbe vissuta insieme a lei, vedendo il padre in alcuni giorni della settimana. In seguito, però, siccome la bambina non poteva non accorgersi di me, Edvige decise di presentarmela, come semplice amico naturalmente. Ricordo che fu una decisione tormentata, soprattutto perché Giacomo, il padre, era a suo modo ancora legato a Edvige. Anche per questo avevamo preferito e, almeno fino a quel momento, saputo nascondergli la nostra relazione. Ma come potevamo, ormai, continuare a fingere? Come potevamo impedire a Milena di riferirgli che Edvige stava frequentando un altro uomo? La bambina non stava solo con noi, non usciva solo con noi, trascorrendo intere giornate in compagnia del padre, al quale avrebbe ben presto rivelato il nostro segreto. E arrivò anche quel giorno. E fu un giorno da dimenticare. Un giorno in cui, vedendo sconvolta la sua vita, apparentemente tranquilla, il marito di Edvige divenne furioso, le scagliò contro un uragano di velenosi insulti, si disse convinto che la nostra relazione fosse in atto già da tempo, che avevo osato subentrare nel suo ruolo di padre, che andavo additato come il peggiore degli uomini, unico e imperdonabile colpevole del loro fallimento. Così, il clima di sbrigliato abbandono, che fino a quel momento sembrava accompagnare la nostra storia, fu oscurato da una nube di forti tensioni. Una nube foriera di dolore. Pur sapendo, infatti, che i miei rapporti con Edvige sarebbero rimasti inalterati, ero altrettanto consapevole che si sarebbero incrinati quelli con la bambina, sempre più riluttante ad accettare la mia compagnia. Mi ero impelagato in una situazione difficile, reverendo… Ma erano, ahimè, solo i prodromi di un’ulteriore morsa, che, nel gennaio del 2003, si strinse intorno a me come un incubo…». Per qualche istante Alberto si fermò, mentre con l’indice e il pollice della mano destra si strofinava gli occhi umidi.

«Su, figliolo, coraggio!», esclamò allora, con voce carezzevole, il frate.

«Come tutti gli incubi, anche questo mi piombò addosso durante la notte. Con l’unica differenza che questa volta ero sveglio. Mi svegliò il suono enorme del campanello, tagliente come una doccia fredda. Spalancai gli occhi e, brancicando, accesi il lume sul comodino e guardai la sveglia: “soltanto le tre, chi può essere a quest’ora?!” pensai preoccupato. Balzai dal letto, per dirigermi verso l’ingresso. Notai la fessura della porta socchiusa della cucina illuminarsi a intervalli regolari. Vi appoggiai la mano destra, per aprirla. Con la complicità di una luce intermittente proveniente dall’esterno, vedevo la cucina senza accendere la luce. Mi diressi verso la porta d’ingresso, il cui campanello diventava sempre più insistente. Attraverso lo spioncino vidi due carabinieri in divisa, che mi intimavano di aprire. Lo feci: “Il signor Alberto Salvati?”

“Sì, sono io…ma?!…”

“Deve venire con noi. Dobbiamo eseguire un’ordinanza di custodia cautelare.”

“Non capisco!?” replicai sconcertato.

“Sì, deve seguirci…ecco, vede?, dobbiamo notificarle questo,” affermò uno dei due pubblici ufficiali mostrandomi il provvedimento firmato dal giudice. Li invitai a entrare. Mi sedetti su una sedia in cucina. Mentre tenevo fermo sul tavolo con una mano l’ordinanza del magistrato, cercavo, con l’altra aperta sulla fronte, di leggerla, nonostante la tensione. Ma il grado di avvilimento, già grande, diventò insostenibile quando lessi che nei miei confronti era stata formulata un’imputazione grave, concernente una cosa …assurda, illogica, incredibile…un sequestro di persona… “Deve essere senz’altro uno scherzo!” affermai allora nel tentativo di esorcizzare quell’apparente messa in scena.

“Ma quale scherzo!”, ribatterono allora con atteggiamento perentorio i latori della sconcertante iniziativa giudiziaria. “Faccia presto, si muova! Ché se non si veste immediatamente, la portiamo via in pigiama!”.

Poi uno dei due mi avvertì che avevo la facoltà di indicare un legale di fiducia. Non conoscendo avvocati, mi riservai di nominarne uno in seguito. Dopo qualche minuto di profondo smarrimento, tentai di ricompormi, per indossare qualcosa, camicia, pantaloni, scarpe, per non dimenticare il portafogli, la carta d’identità. Poi lasciai che mi applicassero le manette, e che mi conducessero verso una delle gazzelle con le quali avevano assediato l’edificio. Fu così che mi trovai rinchiuso in una cella, senza sapere né come fosse accaduto, né per quanto tempo vi sarei rimasto.

Dopo qualche giorno, fui finalmente interrogato dal dr Rossetti, il giudice per le indagini preliminari. Non prima, però, di incontrare l’avvocato Gustavo Rongaldi, il difensore di ufficio nominato dal giudice. Nell’impossibilità di conoscere in quella fase tutti gli elementi raccolti a mio carico, il legale, al quale avrei poi chiesto di perorare la causa come mio difensore di fiducia, mi suggerì con alquanta gravità di trincerarmi dietro un assurdo silenzio, esercitando il diritto di non rispondere.

Mi fu letta l’ipotesi di reato. Un’ipotesi quasi irreale, frutto di una denuncia presentata da Giacomo De Lucias, l’ex marito di Edvige. Lo avevo, a suo dire, orbato della figlia, affermando che quest’ultima gli aveva rivelato, nel corso di una breve e drammatica telefonata, di essere caduta nelle mani di alcuni individui, tra cui “l’amico della madre”, i quali, contro la sua volontà, la tenevano rinchiusa all’interno di un appartamento. In effetti, la bambina era misteriosamente scomparsa da diversi giorni. E per le sue sorti il mio accusatore si diceva preoccupatissimo, paventando di non rivederla più.

Nonostante le dimensioni anguste della cella, non più grande di una ventina di metri quadri, eravamo in quattro a occuparla. E i tre giovani detenuti, in compagnia dei quali ero costretto a vivere la plumbea atmosfera e la promiscuità di quell’ambiente, erano lì già da diversi mesi, in attesa di giudizio per rapina e detenzione illegale di armi da sparo. Ricordo quando uno di loro si faceva spiegare dagli altri la tecnica delittuosa per non ripetere gli errori che ne avevano determinato l’arresto… Per edulcorare la squallida, deprimente realtà carceraria, disponevamo di un piccolo televisore da contenderci; ma non mi fu difficile capire che la scelta dei programmi era affidata al loro esclusivo potere decisionale. Anche di un cucinino potevamo fruire, come puntualmente avveniva, lamentando la pessima qualità del cibo precotto di cui altrimenti ci saremmo dovuti accontentare.

Non avrebbero sortito alcun effetto i successivi tentativi di ottenere la revoca del provvedimento emesso dal dottor Rossetti, sistematicamente negata. Il tribunale al quale il mio legale si rivolse per chiederne il riesame non conosceva ragioni: affermava che gli elementi indicati dal pubblico ministero legittimavano il perdurare della custodia in carcere, configurando gravi indizi di colpevolezza a mio carico. Anche perché la telefonata proveniente dal cellulare della piccola Milena, registrata sul telefonino del mio accusatore, sembrava accreditarne la versione. Non solo.

2. Continua
(il terzo capitolo in rete lunedì 1° aprile, dalle ore 8)