Il calcio e gli intellettuali: tra difesa e contrattacco, prosa e poesia

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di Erika Basile

“Il calciatore vero si riconosce immediatamente, non lo si può inventare né simulare; il suo è qualcosa di innato, un dono, un tocco inimitabile, l’arte di stoppare la palla; una cosa che non si impara. È esattamente come chi possiede uno stile letterario, perché a mio avviso c’è una correlazione tra questo sport e la letteratura. Il modo in cui uno scrittore colloca una virgola o un aggettivo, il modo in cui percepisce la propria musica, il respiro della frase, tutto ciò si ritrova in questo magico gioco. Vi è un calcio musicale, vi sono giocatori epici, giocatori lirici, giocatori accademici”.

Per Vladimir Dimitrijevic, editore e scrittore serbo, autore de La vita è un pallone rotondo, l’inizio e la fine di una partita di calcio, decretati dal fischio dell’arbitro, sono come l’incipit e la conclusione di un libro.

In principio, ci sono solamente fogli bianchi, tutti da scrivere. Può accadere qualsiasi cosa, prima che si arrivi all’ultima pagina. Una partita di calcio è irripetibile, esattamente come lo è un romanzo. Condividono la stessa sceneggiatura: c’è un prologo e un epilogo, ma nel mezzo ci sono eventi inattesi, tensioni, colpi di scena. Non esistono due giocatori uguali, così come non esistono due scrittori uguali. Restano impressi nella memoria quelli che non hanno paura di osare, quelli che riescono ad emozionare, che squagliano “o’ sanghe dint ‘e vene”, come “don Diego” Maradona: il più grande, il don Chisciotte del calcio, “capace di sollevare la palla con un leggero movimento della punta del piede che nessuno, fino ad ora, è riuscito a imitare alla perfezione”.

Quando scatta l’alchimia, tifosi e lettori sono preda della stessa passione e del medesimo entusiasmo. Vivono un’avventura, soffrono e gioiscono, sentendosi essi stessi protagonisti. La palla che rotola nel campo è simbolo dell’imprevedibilità dell’esistenza: passaggi sbagliati, assist che cambiano tutto in un attimo, capovolgimenti improvvisi, delusioni e gioie inattese. Metafora di quel viaggio circolare che è la vita.

 

Appassionato e accanito giocatore nel ruolo di ala sinistra, Pier Paolo Pasolini tira calci al pallone sui campi polverosi di periferia, ma anche, come capitano, in quelli più prestigiosi dove si svolgono le partite della Nazionale dello spettacolo, creata con Ninetto Davoli. Ne fanno parte, tra gli altri, Gianni Morandi, Franco Citti, Little Tony, Bruno Filippini, Enrico Montesano, Mario Marenco e Raimondo Vianello.

In un’intervista del 1973, dichiara a Enzo Biagi che il football, dopo la letteratura e l’eros, è il più grande piacere della vita. Lo definisce, poi, “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, ma anche un “sistema di segni” non verbale. Ai fonemi, unità minima del linguaggio scritto-parlato, fa corrispondere, nel vocabolario calcistico, “i podemi”, con cui definisce i calciatori, in quanto usano “i piedi per calciare un pallone”. In questo colto divertissement linguistico, le “parole calcistiche” sono formate dalle combinazioni tra “podemi”, cioè dai passaggi tra giocatori. La partita diviene un vero e proprio “discorso drammatico”, che può essere compreso solo decifrandone il codice. Di questo codice, i giocatori sono i “cifratori” e noi, che siamo sugli spalti, siamo i “decifratori”. Egli distingue, inoltre, il calcio prosaico da quello poetico. Il primo, di tradizione europea, si basa sul gioco ragionato e collettivo, sul catenaccio e la triangolazione, che vede il suo unico momento poetico nel contropiede. Nel secondo, invece, tipico del Sudamerica, prevale il guizzo individuale. A rompere tutti gli schemi è il goal, che “è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno”.

In uno stadio, come in un teatro, il rapporto tra attori e spettatori è reale, intenso. Gli atleti che si muovono sul campo seguono un rituale preciso, dando vita a una specie di liturgia, che può essere considerata come un moderno culto misterico. Immaginiamo che nello stadio avvenga una sorta di cerimonia spirituale, in cui ogni tifoso, come in un rito iniziatico, diventa parte di una comunità di fedeli, tenuta insieme da una passione comune. Come in un coro tragico, i canti e le esortazioni fanno da commento alle azioni che si svolgono sul terreno di gioco. E, in questa ideale cerimonia pagana, i giocatori si trasformano in divinità che dal prato salutano e incitano i loro devoti seguaci.

L’amore per il calcio permea anche l’esistenza di Albert Camus. Da bambino sceglie di essere un portiere perché, restando tra i pali, i movimenti ridotti gli consentono di non rovinare le scarpe, che ogni sera devono superare l’ispezione accurata della nonna. L’intellettuale esistenzialista francese è un promettente numero uno nella squadra del Racing Universitaire Algérois (RUA) e avrebbe continuato a giocare se non fosse sopraggiunta la tubercolosi all’età di 17 anni. A quel punto, costretto ad appendere le scarpette al chiodo, decide di dedicarsi all’attivismo politico e alla scrittura. “Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e sulle scene di teatro – le mie vere università”, sostiene convinto. Tuttavia, anche quando comincia a frequentare i salotti dell’intellighenzia parigina, non abbandona mai il suo antico amore, attirando su di sé le critiche taglienti delle élites culturali. Per lui, il calcio è una vera scuola di vita: “Ho capito subito che la palla non arriva mai da dove te l’aspetti. Mi è servito più tardi nella vita […]”. E nel 1957, quando gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura, investe il denaro ricevuto nell’acquisto di una proprietà a Lourmarin, nel Luberon, dove sponsorizza il club locale.

Ma il fascino della maglia numero uno ha sedotto, insospettabilmente, anche Arthur Conan Doyle, Ernesto Che Guevara e Vladimir Nabokov, che, in Other Shores, descrive l’esperienza del portiere come un viaggio verso se stesso. Egli è l’unico che può infrangere le regole, toccando il pallone con le mani, “il suo ruolo lo tiene distaccato, solitario, impassibile, il portiere rivaleggia con il matador e l’asso dell’aviazione come oggetto di tremante adulazione. […] È l’aquila solitaria, l’uomo del mistero, l’ultimo difensore”. Gli altri giocatori, se commettono un errore, hanno la possibilità di riscattarsi con un passaggio decisivo o un dribbling spettacolare, ma lui è sempre lì, in attesa, osserva da lontano, è fermo su una linea di confine, “tra i legni”, come Dino Zoff, perché “se il portiere è ben piazzato, lo specchio della porta non misura più sette metri ma quattro, e con due metri per parte è più facile catturare il pallone” (in Giuseppe Manfridi, Tra i legni – I voli taciturni di Dino Zoff).

Con ironia, anche Eduardo Galeano, confessa che come tutti gli “uruguagi” avrebbe voluto fare il calciatore: “Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo. Durante il giorno, ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese”. Esiliato, continua a dare voce ai sogni e alle speranze dell’America Latina, denunciando la violenza colonialista nei confronti delle popolazioni indigene. Non smette mai, però, di coltivare anche la sua passione per la “palla rotonda”. Negli stadi, “cappello in mano” come “un mendicante del buon calcio”, va alla ricerca di una “bella azione”, finché decide di trasferire in un centinaio di testi brevi le sue riflessioni (Splendori e miserie del gioco del calcio), dedicate alle storie dei club, alle partite memorabili, all’origine delle regole, ai ritratti di giocatori geniali, ai goal leggendari, ai ricordi personali, ma anche ai lati oscuri del fùtbol, come il razzismo, la corruzione, la manipolazione. “[…] Il calcio è lo specchio del mondo e nei miei libri mi occupo della realtà. […] Mi è sempre sembrato molto scandaloso che la storia ufficiale ignorasse quella parte della memoria collettiva che è il calcio in Paesi come il nostro […]. I libri di storia del Novecento non lo menzionano mai, non esiste; ed è stato fondamentale per le persone in carne ed ossa. […] Ogni volta che noi uruguaiani vinciamo un trofeo di calcio celebriamo il trionfo della resistenza charrua”.

La condivisione di questo sentimento, in cui convergono voglia di riscatto e senso di appartenenza, ha creato un legame tra la città di Napoli e i popoli sudamericani. “È una cifra antropologica forse non casuale; – come ricorda Paolo De Ioanna (Napoli e il suo Centravanti) – un’altra Italia sta in Argentina e in minor parte in Brasile: luce, lingua, cultura fanno da ponte tra due mondi, attraversati e uniti dal pensiero (e dalla lontananza) del mare che unisce sponde lontane bagnate dallo stesso grande oceano, da cui si è partiti e poi tornati, più volte […], un oceano di speranze, lotte, sacrifici, successi e sconfitte brucianti”. A sancire questa connessione hanno contribuito gli “uomini faro”, i centravanti che si sono avvicendati nella squadra della città partenopea, quasi tutti sudamericani: da Altafini a Vinicio, da Maradona a Careca, da Cavani a Lavezzi, fino a Higuaín.

Lo scrittore brasiliano Edilberto Coutinho, in Maracanã addio, asserisce: “L’uso che in certi casi le dittature fanno del calcio non invalida il gioco, la forza magica della sua bellezza e della sua emozione, che continuano a prevalere. Perché il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo”.

A lungo, tuttavia, il football ha subìto il pregiudizio elitario da parte di molti intellettuali che lo hanno considerato espressione di una società condannata al conformismo e all’omologazione.

È stato accusato, infatti, di essere una sorta di “oppio” anestetizzante, capace di placare le masse e sedarne le energie rivoluzionarie, uno strumento di controllo del sistema capitalistico, un mezzo di alienazione culturale, un’invenzione diabolica dell’impero britannico per addomesticare gli oppressi del mondo. Ma anche un serbatoio dove si raccolgono e si nutrono odio e violenza. “Una guerra meno lo sparo”, secondo George Orwell.

Lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges lo disprezza, sostiene che “il calcio è popolare perché popolare è la stupidità”. Nel racconto distopico del 1967, Esse est percipi, scritto a quattro mani con Adolfo Bioy Casares, egli descrive una realtà mistificata, in cui gli stadi non esistono più “le cose succedono solo alla televisione o alla radio; l’ultima partita di calcio è stata giocata il 24 giugno 1937. Da quella data il calcio, come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, orchestrato da un uomo solo in uno studio o interpretato da attori in divisa da gioco davanti al cameraman”.

Un j’accuse nei confronti dei mezzi di comunicazione, complici nella creazione di una cultura di massa che ha trasformato il calcio in un culto, favorendo così la demagogia e la manipolazione da parte dei governi. Nei suoi Quaderni dal carcere Antonio Gramsci mette in guardia dalla strumentalizzazione dello sport operata dal regime fascista, stigmatizzando gli effetti della propaganda e delle derive identitarie. Tuttavia, in un articolo (Il football e lo scopone), dove mette a confronto due modi diversi di intendere la società, riconosce al calcio un carattere di modernità: “Osservate una partita di football: essa è un modello di società individualistica, vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge. Le personalità si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama lealtà e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro. Paesaggio aperto, circolazione di aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all’azione”.

Una partita è un campo di battaglia, dove regna l’uguaglianza, dove ognuno ha un ruolo ma non esistono gerarchie. È un luogo in cui l’aggressività, incanalata attraverso un sistema di regole, si contiene e si trasforma. Si sublima. Il calcio, ormai, è espressione di una tradizione cosmopolita, in cui nessun tipo di razzismo può essere tollerato e giustificato. Chiunque sia appassionato di questo sport, in ogni parte del mondo, sa che, nonostante tutte le frustrazioni e le delusioni, quello per il calcio è una forma di amore che dura tutta la vita. Come racconta Galeano, per spiegare a un bambino che cosa sia la felicità, non servono parole, basta dargli un pallone per farlo giocare.