Ichino: Riforma del lavoro, non per il posto. Così coniughiamo flessibilità e sicurezza

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Uno dei lasciti più duraturi e significativi del governo Monti è la riforma del lavoro che dell’allora ministro Elsa Fornero porta la firma. L’entrata in vigore della legge data 28 giugno 2012 ed in questo inizio di 2014 il tema della riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali pare tornato in cima all’agenda politica. Il bisogno di una evoluzione più moderna ed efficace di quello “Statuto dei lavoratori” prodotto nel 1970 che riuniva quanto prodotto da leggi e contratti negli anni Cinquanta e Sessanta, appare quanto mai urgente. Il mondo da allora è completamente cambiato. Il mercato del lavoro italiano è oggi duale ed iniquo: da una parte ci sono i lavoratori con contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, che godono di una forte protezione del posto di lavoro e di sostegno durante i periodi di malattia, genitorialità e disoccupazione; dall’altra parte ci sono i lavoratori con contratti di lavoro dipendente a termine, o senza nessun contratto di lavoro in quanto formalmente “professionisti con partita IVA” ma sostanzialmente dipendenti. Tutti questi non godono né di protezione del posto di lavoro né di sostegno al reddito nei periodi di malattia o crisi. Questo secondo gruppo é quasi interamente costituito da giovani, donne e immigrati: i soggetti marginali nel mercato del lavoro. Ci sono infine i lavoratori irregolari, un mondo sommerso in cui non ci sono né contratti, né tutele di alcun tipo. Sarebbe auspicabile vivere in un Paese riformato dove finalmente si sostengano i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Un’altra Italia dove tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa in cui lavoravano, possano godere di un sussidio di disoccupazione e di strumenti di formazione che permettano e incentivino la ricerca di un nuovo posto di lavoro quando necessario, scoraggiando altresì la cultura della dipendenza dallo Stato. Il Denaro ne parla con Pietro Ichino, giurista, giornalista e senatore iscritto al gruppo di Scelta Civica per l’Italia. Viviamo nel 2014 ed oggi gioverebbe un più efficiente ed equo perimetro legale con meno norme universali che discendano dai principi comunitari e costituzionali e per il resto rinvii alla contrattazione, cosa ne pensa professor Ichino? Condivido pienamente questo auspicio. Muoversi in questa direzione significa anche ricondurre la legge alla sua funzione essenziale, diversa da quella del regolamento, e ancor più dalla funzione della circolare ministeriale. Ma diversa anche dalla funzione del contratto collettivo. Oggi, invece, accade troppo diffusamente che la legge costituisca la forma in cui viene veicolato il contenuto di un accordo tra le parti sociali interessate, cui ha partecipato anche il Governo. Il suo modello di Flexicurity in che direzione va, rispetto a ciò? L’idea essenziale è di coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale della persona che lavora. Il che significa, evidentemente, che questa sicurezza non può più essere costruita sull’ingessatura del rapporto di lavoro. L’unica leva di cui oggi disponiamo per un forte aumento della domanda di lavoro è aprire l’Italia agli investimenti stranieri, ai quali siamo ermeticamente chiusi. Potremmo proporci ragionevolmente, guardando a quel che accade nel resto di Europa, di avere ogni anno un flusso di 50-60 miliardi di investimenti in più. Occorre migliorare le amministrazioni pubbliche, incominciando dalla giustizia, e ridurre i costi dell’energia. Ma occorre anche un mercato del lavoro molto più fluido e ben funzionante. E una legislazione semplice, traducibile facilmente in inglese e allineata ai migliori standard europei. Ricordando che il lavoro non si crea per legge o decreto, ma con la crescita e il sostegno alle imprese, in queste settimane si dibatte del Jobs Act presentato da Matteo Renzi: il piano del lavoro del neo segretario PD parte con il passo giusto? Ed il tema della formazione e dell’investimento in capitale umano è considerato nella giusta misura? Questo lo vedremo quando finalmente si conoscerà il contenuto di questa proposta. Per ora conosciamo soltanto i titoli dei capitoli; e questa è una materia nella quale il diavolo si nasconde nei dettagli. Si indicano alcune misure, ancora generiche ma ragionevoli, di semplificazione burocratica, miglioramento dell’efficienza e trasparenza delle amministrazioni, detassazione dei rapporti di lavoro (qui, pur mantenendo i piedi per terra, si può pensare a qualche cosa di più incisivo), incentivazione dello sviluppo dell’occupazione in alcuni settori particolari. Il predominio di contratti collettivi nazionali frena spesso la produttività del lavoro, la flessibilità salariale e il dinamismo delle imprese. Questo Jobs Act proposto quanto migliora la situazione? Anche questa è una domanda a cui non si può rispondere prima di conoscere con precisione il contenuto della proposta del PD sulla riforma delle rappresentanze sindacali. Nell’annuncio di Renzi si legge che si avvia un “processo verso il contratto a tutele crescenti”. Che cosa significa questa criptica concessione al peggior linguaggio “sindacalese”? Infine una delusione: quell’accenno agli “oltre 40 tipi di contratto di lavoro”, che andrebbero sfrondati per combattere il precariato. Una curiosa concessione di Matteo Renzi alla leggenda metropolitana, secondo la quale i tipi di contratto di lavoro possibili sarebbero stati moltiplicati a dismisura dalla legge Biagi del 2003. Le forme giuridiche di contratto di lavoro in Italia non superano la quindicina ed esse preesistono tutte alla legge Biagi, anche se alcune sono state da questa rinominate e ri-regolate. Infine in che modo agire sul Cuneo Fiscale, drammatico handicap italiano? Occorre offrire alle imprese e ai lavoratori, nei prossimi due anni, la possibilità sperimentale di costituire rapporti di lavoro a tempo indeterminato più snelli, con un costo di separazione gradualmente crescente nel tempo e predeterminabile con precisione nel suo ammontare; e meno costosi. Quest’ultimo obiettivo si può ottenere con una riforma della Cassa integrazione guadagni che potrebbe ridurre il contributo dall’attuale 3 per cento allo 0,5; con una riduzione del contributo pensionistico dal 33 al 25 per cento per tutti i rapporti costituiti con persone di età inferiore ai 29 anni, sul presupposto che al minor gettito odierno corrisponde un minor debito pensionistico in prospettiva (criterio contabile, questo, che ben potrebbe essere concordato con l’Ue in sede di agreement bilaterale) e azzerando l’incidenza del costo del lavoro sull’imponibile Irap: certo, per questo occorrerebbe dare la precedenza alla detassazione di lavoro e impresa rispetto alla casa. Antonluca Cuoco @antoluca_cuoco


Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0″. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. È nel Direttivo di Italia Aperta, socio della Alleanza Liberaldemocratica e sostenitore dell’Istituto Bruno Leoni.