La Legge di stabilità è, sotto il profilo macro-economico, essenzialmente “neutra”: il maggior deficit di bilancio (che aggraverà il rapporto tra debito pubblico e Pil) viene “compensato” da maggiori spese. Lo conferma il quadro macro-economico delineato nel Documento di economia e finanza (Def); superato il periodo di recessione e stagnazione, e il pericolo di una deflazione, la crescita tornerebbe a tassi modesti: 0,9% nel 2015, 1,6% tanto nel 2016 quanto nel 2017, 1,5% nel 2018, 1,3% nel 2019. Prima della crisi, il tasso “potenziale di crescita” dell’Italia veniva stimato proprio a 1,3% l’anno dal servizio studi della Bce, oltre che da altri organismi internazionali (Banca mondiale, Ocse, Fondo monetario internazionale) a ragione principalmente dell’invecchiamento della popolazione e dell’obsolescenza dell’apparato produttivo. La modesta crescita del Pil viene trainata, sempre secondo il Def, dalle esportazioni (non dalla domanda interna), a motivo, in gran parte, del deprezzamento dell’euro sui mercati internazionali. In questo quadro, il miglioramento degli indici di fiducia non sono più che Due soldi di speranza. Tuttavia, le analisi del Def, che rappresentano il supporto analitico della Legge di stabilità e, dunque, della strategia del Governo, non tengono conto che l’Italia sta uscendo lentamente (e con una buona dose di fragilità poiché la crescita, pur modesta, dipende dal contesto internazionale) non tanto da un ciclo negativo – la “congiuntura difficile” di cui si parlava negli anni Sessanta – quanto da una fase che ha profondamente inciso sulle strutture dell’economia: il settore manifatturiero ha subito una forte contrazione; imprese anche di grandi dimensioni hanno delocalizzato centri decisionali e impianti; nel settore dei servizi si è assistito a una vera e propria ecatombe del commercio al dettaglio; alcuni comparti (come l’editoria) sono in una profonda crisi strutturale; l’agricoltura perde peso di fronte alla liberalizzazione degli scambi di numerosi prodotti mediterranei. Quindi, non abbiamo attraversato una “congiuntura difficile”, ma abbiamo, non volendo, cambiato le strutture della nostra economia. Non mancano analisi delle trasformazioni strutturali, ma riguardano principalmente i Paesi in via di sviluppo e quelli denominati “emergenti”. In questi giorni è uscito un interessante studio del Centre for European Policy Research (Discussion Papers No. DP 10884), ne sono autori Manuel Funke e Moritz Schularick, ambedue dell’Università Libera di Berlino, e Cristoph Trebesch della Ludwig Maximilian Universitat di Monaco di Baviera. L’analisi prende avvio dal fatto che conflitti di parte e incertezza sulle politiche economiche sono ritenuti determinanti di crescita lenta e fragile (come quella prevista per l’Italia) dopo lunghe crisi che “mordono” sulle strutture economiche. Lo studio analizza le conseguenze e le implicazioni politiche derivanti da prolungate crisi finanziarie e di economia reale negli ultimi 140 anni per 20 paesi (quelli di cui si dispone di serie statistiche adeguate); i dati riguardano anche 800 elezioni politiche. La conclusione principale è che l’incertezza politica aumenta notevolmente quando si sta uscendo da una crisi e i partiti estremisti aumentano, di solito, del 30% i loro voti dopo una crisi strutturale. L’analisi non osserva una dinamica politica analoga dopo recessioni “normali” e dopo shock macroeconomici che non incidono sulle strutture. I difetti della Legge di stabilità non sono tanto in questo o in quell’articolo, quanto nel fatto che le manca un disegno di dove pilotare quel che resta dell’economia italiana. Le manca un’anima. Mentre il quadro politico si fa confuso e si estremizza. Altro che Due soldi di speranza.
di Giuseppe Pennisi