di Pietro Di Muccio de Quattro
Se ne avessi l’autorità, come ne ho l’ardire, suggerirei a Massimo Fini, del quale “Il Fatto Quotidiano” ha ospitato un paginone su “Rousseau e la lotta al consumismo”, la lettura del libro, fresco di stampa, “A proposito di Rousseau”. L’autore è David Hume, nientemeno: uno che Rousseau lo conosceva fin troppo bene. Questo libro, un gioiello di profondità e leggerezza, arguzia e gravità, pubblicato da Rubbettino, traduce l’originale inglese “Un conciso e genuino resoconto della disputa tra il Signor Hume e il Signor Rousseau: con le lettere che si scambiarono durante la loro controversia” del 1766.
L’articolo di Fini ha per occhiello “Illuministi”. Ma quanto diversi tra loro! Hume, come lui dice di se stesso, era mite, socievole, aperto, brioso, padrone del suo carattere, insensibile all’inimicizia e moderato nelle passioni. Rousseau, invece, bontà sua, si descrive così: “Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quanti ho conosciuto. Mi sono sempre creduto e mi credo ancora, tutto sommato, il migliore degli uomini”.
La disputa in questione, pur appartenente al “Secolo dei Lumi”, è tuttavia strettamente attuale perché le citazioni e l’entusiastico commento di Fini riguardo al “Discorso sulle scienze e sulle arti” di Rousseau ripropongono un tipo di attacco alla “Modernità” che in modi e mezzi aggiornati vediamo tutt’oggi scagliare sotto i nostri occhi. Il paradosso di tale attualità sta in questo, che Fini esalta l’intemerata contro l’economia di un pensatore come Rousseau che era (ed è) noto per la sua ignoranza in materia. Massimo Fini individua “la straordinaria modernità di Rousseau, l’antimoderno” nella condanna della ricchezza, dello sviluppo economico, del mercato libero, e cita la preghiera di Rousseau: “O Dio onnipotente, tu che tieni nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle funeste arti e rendici l’ignoranza, l’innocenza, e la povertà, i soli beni che possan fare la nostra felicità e che sian preziosi al tuo cospetto” (sic!).
Hume e Rousseau non erano profondamente diversi soltanto nel carattere, ma anche nel pensiero. Hume credeva nella proprietà privata, nel “governo limitato”, nella libertà sotto la legge, nella cooperazione volontaria, nella moneta e nello scambio, nelle arti e nella raffinatezza. Rousseau sulla proprietà privata esprime giudizi contraddittori, dove l’accetta, dove la condanna. Ma la questione di fondo, come sottolinea Lorenzo Infantino, “è che il modello di società a cui Rousseau è rimasto sempre fedele è quello del collettivismo spartano. Nel ‘Discorso sulle scienze e le arti’ ha definito Sparta una ‘repubblica di semidei più che di uomini’. Il modello spartano è reiteratamente proposto nell’improvvida lettera a d’Alembert. Sparta è il punto di riferimento nel ‘Progetto di costituzione per la Corsica’ dove vengono addirittura proposte l’autarchia e l’abolizione del denaro, nonché il calcolo in natura. L’adozione di Sparta come proprio modello sociale e il rifiuto del denaro, che è il mezzo della libertà individuale di scelta, indicano chiaramente l’obiettivo che Rousseau si prefiggeva. Quanto scritto contro la scienza, le arti, la grande città, e il lusso ne è un mero complemento”.
Hume aborriva il ‘governo popolare’ (si direbbe il populismo di oggi!) perché amava la costituzione inglese, “se non il migliore sistema di governo, perlomeno il più completo sistema di libertà mai visto e conosciuto dal genere umano”, e temeva il potere illimitato e vessatorio. Rousseau negava che il popolo inglese fosse libero perché “i deputati del popolo non sono né possono essere i suoi rappresentanti; nelle antiche repubbliche, e anche nelle monarchie, mai il popolo ha avuto rappresentanti, la stessa parola era ignorata”.
Ognuno può capire da questi semplici accenni a quella celebre controversia tra Hume e Rousseau (celebre perché in Europa erano celebri i disputanti e dunque lo fu la disputa) che la “volontà generale” di Rousseau, messa al servizio della sua ossessione di edificare “il regno della virtù” redimendo il mondo dal male, è un terribile pericolo immanente nella politica. Pure oggi, sebbene equivocato e indefinito, questo pericolo è davanti a noi, benché i nuovi antimoderni non siano che orecchianti, anche inconsapevoli, del vecchio Ginevrino.