Gli universi del possibile: Wayne McGregor tra clima e visioni

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Milano, 18 feb. (askanews) – Ci possono essere misteri e viaggi nello spazio e nel tempo; ci possono essere divinità divisive e segni magici; c’è una danza d’impianto tradizionale calata in un contesto fantascientifico; ci sono i corpi e la tecnologia; c’è la poesia e forse la storia del passato e del futuro; c’è la crisi climatica, c’è il buio, ma può esserci anche una speranza. Oppure potrebbe esserci molto altro, molte narrazioni diverse, molte visioni diverse. Unite però da un racconto coreografico e visuale che ha la forza di andare oltre e di mettere in scena l’urgenza del tempo che viviamo e di quello che potremmo (non) vivere ancora. Lo spettacolo “UniVerse: A Dark Crystal Odyssey” del coreografo britannico, e attuale direttore della Biennale Danza di Venezia, Wayne McGregor è uno spettacolo dalla straordinaria scenografia e dalle vaste profondità. Portato anche in Triennale Milano in occasione del FOG Festival, ha mostrato ancora una volta come oggi si possa ripensare l’idea stessa di palcoscenico, senza togliere la centralità dei corpi e dell’azione dal vivo, ma integrandola con le risorse della tecnologia e con un gioco sui piani di scena che genera una sorta di spettacolo nello spettacolo, non nel senso shakespeariano classico, ma in quello visivo e narrativo. Le immagini che appaiono davanti e alle spalle dei danzatori sono parte della storia, sono amplificatori, sono in certi casi veri e propri oggetti. Ma al tempo stesso sono spirito, sentimento, aspirazione, contrappunto e a volte sono tutto, come una grande oggetto gravitazionale dalla incommensurabile forza attrattiva.

Lo spettacolo di McGregor parla di clima, di un pianeta malato e di un’umanità che si divide, parla di paure contemporanee e antichissime, dello sguardo verso il cielo e le sue profondità scientifiche che vanno oltre la comprensione. Parla di uomini e viaggiatori, pronti ad andare, come cantava Battiato, “alle porte di Sirio”, ma anche, sulla scorta del film “The Dark Crystal” di Jim Henson al quale si ispira, della rottura dell’equilibro universale e delle conseguenti divisioni che si creano. Da qui le molte scene di scontro che caratterizzano la coreografia, da qui la tensione, resa più dolorosa dalla consapevolezza di un tempo che diventa sempre più breve, sempre più rischioso per noi. Ma poi arrivano le stelle, le galassie. I performer e il pubblico con loro alzano gli occhi al cielo e vedono la meraviglia senza fine, il sublime kantiano, ma nella forma della bellezza più pura, libera dalla paura, che invece sembra essere il sentimento più diffuso sulla terra. Dalla platea si ha la sensazione di poter essere in molti mondi diversi (e in molti sentimenti diversi) allo stesso tempo, con il conseguente senso di spaesamento; ma la musica, le immagini e i movimenti dei ballerini ricompongono questa incertezza in una visione che ha la potenza dello sguardo oltre la siepe dell’Infinito leopardiano, ma anche un’armonia strana e superiore: l’armonia della possibilità, di un’altra possibilità. Una storia diversa è possibile, sembra ricordarci McGregor, purché si sia prima compreso fino in fondo, proprio dentro i corpi sul palco e anche in parte in quelli seduti in sala, il contesto del presente. La sua drammatica poeticità, che è ciò a cui aggrapparsi, grazie alla voce recitante che appare a scandire i tempi e i momenti del racconto; un po’ come l’apparizione del monolito scandiva i salti evolutivi in un’altra Odissea, quella di Arthur Clarke e Stanley Kubrick, nel 2001 dei sogni collettivi.

C’è anche qualcosa di panico, un sentimento spinoziano della Natura come tutto, come entità assoluta le cui processioni generano la fenomenologia. Ma nel caso di “UniVerse” è la stessa fenomenologia a farsi totalizzante, in un circolo che si rincorre e si completa proprio nel non chiudersi mai. Ogni scena alza ulteriormente la posta in gioco e spinge un passo oltre il confine da raggiungere. Ma trattandosi di un universo in espansione è chiaro che, come dei nuovi Kafka o Beckett, a quel confine non arriveremo mai, Godot lo continueremo ad aspettare. Però l’attesa è il viaggio stesso, l’attesa è il Tempo, che la grandezza della visione di Wayne McGregor riesce a piegare, per allargare ancora di più le porte delle nostre percezioni di spettatori. Il viaggio lisergico dell’astronauta Bowman diventa allora accessibile, con la stessa mancanza di certezze e di risposte, certo, ma con un punto di approdo che è ancora vicino, vicinissimo a noi. Perché la danza può curvare lo spaziotempo e riportarci a casa, sapendo che dopo aver vissuto questo spettacolo ogni cosa potrà anche apparirci diversa. E così, chissà, forse è così che si impara a sperare. (Leonardo Merlini)