Gli “Incurabili” e l’arte di guarire con l’Arte

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Scienza e Arte. Medicina e Bellezza. Binomi insoliti, accostamenti originali e affascinanti che attirano inesorabilmente la nostra attenzione. Così, prenotata la nostra visita, siamo qui, al Museo di Arti sanitarie, presso l’Ospedale degli Incurabili. Pronti a farci condurre attraverso una nuova lettura della storia di una Napoli che non finisce mai di stupire. Una storia che è attraversata da epidemie, sofferenze, ma anche tanta solidarietà e speranza.
Ad accoglierci nel complesso museale, il signor Camillo, che si rivelerà volontario dell’Associazione culturale “Il faro di Ippocrate”, validissimo ed efficace narratore di questi luoghi.
Siamo in uno dei quartieri più antichi della città, a pochi passi dal museo Archeologico e via Foria, luoghi intrisi di storia e tradizione che, al tempo della fondazione dell’ospedale erano tra i più salubri della città. Fu qui che , in pieno Rinascimento, nel 1522, Maria Longo, nobildonna di origini catalane, decise, per ringraziare di un miracolo ricevuto, di fondare un ospedale per i malati incurabili colpiti da sifilide e per le donne gravide. L’epidemia di sifilide imperversava in città, così come in ogni luogo dove ci fosse un porto. In quel tempo si ignorava la ragione del contagio, sicché la malattia ebbe modo di espandersi fino a colpire anche l’80% degli abitanti. Tramite frizioni di sali di mercurio, praticate in questo ospedale, si riuscivano a contenere i sintomi della malattia, le piaghe scomparivano, inducendo i malati e gli stessi medici a ritenere il paziente guarito, con la conseguenza che invece la malattia continuava a diffondersi e i pazienti, straziati dal dolore, impazzivano. Per questa ragione fu aperta una particolare sezione del nosocomio, denominata Pazzaria. Una curiosità: al nome del medico che si prendeva cura di questi pazienti, Giorgio Cattaneo, si deve uno un appellativo tipoicamente napoletano, ‘O Mastuggiorgio. Cattaneo aveva infatti un approccio del tutto personale alla cura dei pazienti psichiatrici, che prevedeva l’uso di violente percosse, anche con verghe e bastoni. Oggi il termine può definire un uomo intraprendente e determinato, capace di prendere le redini di una situazione difficile, ma che può essere anche violento e pronto ad ottenere ciò che vuole ad ogni costo.
Il complesso ospita anche la cappella dei Bianchi della giustizia, visitabile solo due volte al mese. I Bianchi della Giustizia sono la Compagnia napoletana che per secoli si è occupata di assistere i condannati a morte, ma anche di prendersi cura dei familiari e di far rispettate le ultime volontà del giustiziato. Ebbene, presso questa cappella venivano condotti i condannati a morte nei tre giorni antecedenti l’esecuzione della pena, affinché potessero pregare e pentirsi o, più semplicemente, non avendo niente da perdere, potessero fornire maggiori dettagli in merito ai reati commessi.
Ancora, il complesso ospita quello che fu il convento delle pentite, ovvero suore che erano state prostitute e che in segno di gratitudine per la guarigione ottenuta dai sintomi della sifilide, restavano presso l’ospedale per assistere altri pazienti.
Entriamo nel vivo della nostra visita, accedendo ai locali che ospitano il Museo delle Arti Sanitarie, dedicato alla memoria della storia della medicina napoletana. Nelle sale, dedicate a luminari della medicina napoletana quali Cotugno, Moscati, Cirillo, è possibile visionare strumenti medici d’epoca, stampe anatomiche, ferri antichi che sono il pretesto per viaggiare nel tempo, attraverso basti pensare al dramma degli amputati, con interventi praticati sul campo, in assenza di anestesia.
Di grande impatto la rappresentazione di quello che appare come un vero e proprio presepe, che invece raffigura “ Incurabili pastori e guaritori ciarlatani”, uno spaccato delle malattie e relative cure del tempo, infermi, medici, pazienti allettati, appestati con i medici abbigliati col tipico costume, religiosi in preghiera, e finanche il passaggio del carro con i turchini, i cantanti eunuchi.
Lasciato il Museo accediamo alla Farmacia, progettata nel 1700. Un autentico capolavoro del barocco-roccocò che lascia senza fiato. Efficiente laboratorio e al contempo luogo di rappresentanza dove ospitare l’elite scientifica napoletana. La Farmacia, in poco tempo, divenne un centro di eccellenza sia per la ricerca che per la produzione di erbe. Il farmaco chimico divenne una conquista eccezionale per la medicina dell’epoca, grazie al quale il medico poteva, finalmente, iniziare a contrastare le malattie che indagava.
Tutto il perimetro della Farmacia è percorso dagli scaffali in noce che ospitano l’originario corredo di vasi in maiolica splendidamente decorati che raffigurano scene bibliche ed allegoriche dipinti da Lorenzo Salandra e Donato Massa, lo stesso decoratore del chiostro maiolicato di Santa Chiara. L’ambiente avvolge il visitatore, con i suoi simboli, le allegorie, i richiami massonici. Bellissima la scultura, in legno decorata a foglia d’oro, che rappresenta Partenope, simbolo della vita.
In questo luogo si sperimentarono nuove cure, inclusa la preparazione della panacea di ogni male: la Teriaca o Triaca. Questo farmaco ebbe una grossa diffusione tra il Medioevo e il Rinascimento: conteneva, tra le altre cose, oppio, carne e pelle di vipera. Considerata una bevanda sacra, a cavallo tra scienza e magia, sembrava traesse origine direttamente dall’elisir di lunga vita.
Con i pochi mezzi che la scienza del tempo metteva a disposizione, suore, frati e volontari alleviarono, in questo spazio sospeso tra Scienza e Arte, il dolore e la sofferenza dei malati: con la cura, ma anche la bellezza di questi luoghi resero accettabile anche la morte.