Generazione 2.0: più merito, meno art. 18

66

Parla Capeci, manager Doxa e autore di un’indagine sulle scelte lavorative dei giovani Tra i tanti cattivi primati europei per cui l’Italia è famosa c’è uno molto amaro : quello del numero di giovani inattivi, in quanto non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere. Si tratta dei Neet: Not in Education, Employment or Training. In tale scenario, risulta esser ancor più interessante parlare quindi della prima generazione italiana interamente cresciuta dentro al Web 2.0. Sono i 18–30enni che hanno affrontato la propria crescita individuale e sociale (dall’adolescenza all’essere adulti con l’ingresso nel mondo del lavoro), nello stesso momento in cui il Web 2.0 stava nascendo e rivoluzionando il mondo. In Capitalismo, Socialismo e Democrazia, Joseph A. Schumpeter descrive il funzionamento di un’economia di mercato come un processo di “distruzione creativa”. Secondo Schumpeter è l’innovazione (“I nuovi beni di consumo, i nuovi metodi di produzione o di trasporto, i nuovi mercati, le nuove forme di organizzazione industriale create dall’impresa capitalistica”) il motore di questo processo. La sua conseguenza è che, per la prima volta nella storia, la massa della popolazione nei paesi sviluppati gode di un livello di vita che le aristocrazie del passato avrebbero potuto a malapena immaginare e raggiungere. Tuttavia per la nostra cultura, e nonostante in Italia da sempre nulla sia stabile quanto il provvisorio, quella del precario è una condizione disagiata. Il precario va “stabilizzato”. Ragioniamo così, perché in tanti ricordiamo una società nella quale i giovani si sposavano presto, il primo traguardo nella vita era mettere su famiglia e la certezza del posto fisso serviva per pianificare il futuro. L’Italia è cambiata, ci si sposa tardi (quando ci si sposa), ai figli si pensa in zona Cesarini, e senza scadere nel moralismo si può dire che è cambiata la nostra scala di valori. Ed anche il sogno del posto fisso è cambiato, almeno per la Generazione 2.0. Chi non vuole il posto fisso sa che il mondo è cambiato. Sa, per esempio, che molto probabilmente non avrà mai la pensione. Sa che vivrà più a lungo e più in salute dei suoi genitori. Sa la tecnologia ha cambiato la sua vita e cambierà anche il suo approccio al lavoro. Sa che non è detto che un addetto in banca a Roma conduca una vita più felice di un cameriere a Londra, con possibilità di carriera. Sa pure che in un Paese nel quale l’università forma poco e male chi ha ambizione e voglia di crescere deve affidarsi a se stesso più di altrove, nel mondo occidentale. Sa, soprattutto se viene dal Mezzogiorno, che è meglio poter essere licenziato, che non venire mai assunto. Sa che la pubblica amministrazione non potrà mai più essere usata come ammortizzatore sociale. Sa che la crisi che stiamo vivendo temprerà la nostra generazione, ma sa anche che ne usciremo solo facendo assegnamento su noi stessi: lavorando di più. Nel 2008 nacque un gruppo su Facebook che poi crebbe e fece conoscere, tra loro, tanti ragazzi che condividevano questi nuovi approcci e consapevolezze: si chiamava “Io non voglio il posto fisso, voglio guadagnare.” L’idea dell’ideatore del gruppo – Piercamillo Falasca – era che la mobilità è un valore perché aumenta le competenze, costringe a una continua specializzazione e migliora le prospettive future. Oggi ne parliamo con Federico Capeci: già direttore generale di Duepuntozero Research del gruppo Doxa, che nel suo ultimo libro #Generazione 2.0 studia i dati di una nuova indagine sulle scelte lavorative dei giovani italiani. Chi sono questi giovani italiani della Generazione2.0? Quali valori hanno? Sono quegli 8 milioni di ragazzi che hanno trascorso la propria adolescenza nel momento di diffusione del cosiddetto Web 2.0 nel nostro Paese. Aver costruito la propria identità e socialità tra blog, forum, social network e wikipedia li ha fatti crescere in modo molto diverso da chi li ha preceduti. Ma sono molto diversi anche dalle generazioni che seguiranno, in quanto loro lo hanno fatto per primi, senza nessun aiuto o modello. Il web li ha creati liberi, globali, informati, sociali, collaborativi e molto più attenti alla propria reputazione di quanto nessun altro prima: per questo abbiamo di fronte una generazione preziosa: sono un’entità collettiva, perché il Web aggrega e chiede lo scambio; sono autentici, perché cresciuti sottoposti a valutazione e sconfessamenti continui; sono veloci, rapidi, attuali e rispondono agli stimoli talmente velocemente che scrivono se stessi e la storia nel flusso continuo di un divenire; sono liberi, non si vincolano, legano, chiudono attorno a niente e a nessuno, perché la reticolarità del web porta lontano e amplia gli orizzonti; sono coinvolti, partecipano, chiedono esperienza e intrattenimento in ogni attività, poiché il digitale è immersivo. Hanno, come descritto nel libro, un proprio STILE, insomma (S.ocialità, T.rasparenza, I.mmediatezza, L.ibertà, E.sperienza), che racchiude i loro valori e che finisce per essere la nostra chiave di lettura dei loro comportamenti. Ambiscono a cambiare il mondo in cui vivono? Secondo quali idee ed auspici? Son attirati dall’impegno politico? Certo che si. Crescere con il web 2.0 (e non semplicemente con Internet e tantomeno con la TV) è significato per loro poter e dover agire sui contenuti e modificarli, di qualsiasi tipo: un articolo di giornale, un post di facebook, un qualsiasi oggetto digitale viene modificato, integrato, reinterpretato e condiviso fino ad essere, nel suo complesso, drasticamente differente dalla versione originale. Certo, quindi, che cambiano il mondo attorno a loro, lo stanno già facendo, e siccome è diventata una attitudine di base, tramite loro potremo conoscere le nuove tendenze del mercato che si affermeranno nel futuro: si veda per esempio alla sharing economy (www.collaboriamo.org per informazioni sul tema), in cui la proprietà non è più un valore in quanto l’oggetto di attenzione e di valorizzazione è l’uso, come avviene per le auto o bici in condivisione nelle grandi città, per esempio. La politica è importante per loro, la grande maggioranza di essi la considera rilevante, ma il tema è quale politica e con che modalità di coinvolgimento. Quale politica oggi opera secondo STILE? Qual è il rapporto con la flessibilità, di questi ragazzi? Seguono e comprendono il dibattito su art18? A quali priorità badano sul lavoro? Con tassi di disoccupazione giovanile prossimi al 50% forse dovremmo più parlare di tutele per ottenere un lavoro, se vogliamo parlare a loro, più che di tutele per non perderlo. Comunque anche in questo ambito ci insegnano molto: è la prima generazione che mette al primo posto nel ranking di attributi del posto di lavoro ideale la meritocrazia. Anche questo è un concetto perfettamente attinente al loro STILE: richiedere meritocrazia significa avere un processo di valutazione esplicito delle loro capacità e performance, un feedback continuo sullo stato di avanzamento rispetto alle attese e un rapporto molto stretto tra azienda e dipendente, fin dalla sua selezione, basato sulla condivisione e trasparenza. Questa nuova generazione continua a considerare il lavoro più “un diritto” per tutti i cittadini o più un “dovere” da conquistare, per realizzarsi e consentire di vivere con dignità? Sono tanti i valori per i quali le generazioni precedenti hanno lottato e che per loro sono valori di base acquisiti. La libertà di opinione e di scelta, per esempio: pensate a come sono cresciuti, potendo comunicare con tutti, in ogni modo, da ogni luogo, in ogni momento attraverso i social network e lo smartphone. Tuttavia per loro non esistono “diritti” acquisiti perché una autorità li ha stabiliti e difesi: i diritti che hanno conquistato sono ciò che il web e la community ha saputo ottenere per se stessa, attraverso i processi di viralizzazione dei contenuti più rilevanti. Quindi, in sostanza, nulla è un diritto acquisito fino a quando non è tenuto in alto nel ranking dalla comunità stessa. Quindi, “sei alto nel ranking solo se lo meriti”. In che aziende si vedono con più piacere? Quelle con maggiori prospettive di crescita e di carriera o quelle più note e con lunga storia? Sono le aziende italiane con un’apertura verso l’estero. Anche in questo sono molto diversi dalla generazione X, per esempio: il mito americano regge solo in rifimento ai miti tech quali Google, Apple e Microsoft, mentre nel ranking delle top 10 emergono ben 6 aziende italiane, che hanno il merito di saper trasferire il valore dell’italianità all’estero in diersi campi: Ferrero, Barilla, Ferrari, ma anche Eni, Enel e Fiat. Questa Generazione 2.0 si immagina in Italia o all’estero a lavorare? Si vorrebbe in Italia, ma poi dipenderà da quanto il nostro sistema, e non solo economico, sarà in grado di saperli trattenere. Siamo sempre molto attenti ai cervelli in fuga, ma qui abbiamo di fronte ragazzi che aspirerebbero a rimanere nel nostro Paese, però dovremmo iniziare subito a cambiarne lo STILE. In che misura i ragazzi del sud sono pienamente nella generazione 2.0, per idee e valori? Purtroppo il fattore scatenante di questa nuova forma mentis, il web, non si è affermato in modo omogeneo nel nostro Paese. Per questo la differenza tra Nord e Sud, ma anche tra grandi e nei piccoli centri, non riguarda tanto una differenza culturale o sociale di base, che avrebbe o meno ostacolato l’affermarsi di questo nuovo pensiero, ma attiene alla diffusione del web e della banda larga. Là dove non vi era internet non vi erano adolescenti cresciuti in modo differente dai precedenti, insomma. Detto questo le differenze si sono assottigliate molto presto, poiché il gruppo e le community dei ragazzi, in rete, si sono subito trovate, aggregate, mischiate e accresciute reciprocamente, colmando quindi i gap originari. Si può quindi affermare che il pensiero della generazione 2.0 non ha una territorialità, sebbene tenda a concentrarsi laddove l’esperienza digitale abbia potuto pervadere testa e cuore degli allora adolescenti. La generazione 2.0 è ancora capace a concentrarsi e focalizzarsi su libri con attenzione, superando il tempo click che ne scandisce le attività? La lettura dei libri della generazione 2.0 è maggiore che presso gli adulti (48% vs 40%). Quindi anche questo è un mito – o meglio uno stereotipo – da sfatare.


Antonluca Cuoco Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0”. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. È nel Direttivo di Italia Aperta, socio della Alleanza Liberaldemocratica e sostenitore dell’Istituto Bruno Leoni. Twitter @antonluca_cuoco