Fuga dei cervelli, raddoppiato in 15 anni il numero delle donne. Note a margine sul capitale umano

“FUTURAnetwork è un sito di dibattito dell’Alleanza nazionale per lo sviluppo sostenibile (ASviS) che, attraverso la presentazione di studi, articoli, interviste e segnalazioni di materiali, consente di esplorare i possibili scenari per decidere oggi quale futuro vogliamo scegliere tra i tanti possibili. Il sito si propone di stimolare la discussione sui temi del futuro e dello sviluppo sostenibile, presentando anche visioni diverse e contrapposte, indispensabili per attivare un confronto stimolante e proficuo. La scelta del nome FUTURAnetwork  rappresenta sia la molteplicità dei futuri possibili (“futura”, plurale della parola latina “futurum”) che un “network” dove valorizzare in modo non episodico le tante esperienze e competenze esistenti nel nostro Paese e all’estero. – Decidiamo oggi per un domani sostenibile Per questo FUTURAnetwork è realizzato in collaborazione con enti e associazioni che riuniscono studiosi di futuro, reti di ricercatori ed esperti delle diverse materie, con il supporto della Fondazione Unipolis e di altri partner”. L’ASviS è sorta nel 2016 per attuare in Italia l’Agenda 2030 dell’Onu e riunisce oltre 300 soggetti della società civile impegnati nella realizzazione dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il contributo di questa vasta rete arricchisce i contenuti del sito (qui) https://asvis.it 

Seguono tre paragrafi di pochi righi ciascuno (Come contribuire al dibattito – Perché parlare di futuro – Il ruolo dell’ASviS) a cui è utile riferirsi  per comprendere come si collocano i testi di questa rubrica nel  quadro della produzione scientifica dell’ASviS. 
Il testo di   questo “pezzo” riportato ne ildenaro.it riprende  la posizione dell’ASviS, condivisa il 14 11 2023, nel FUTURA network, dal titolo “Cervelli in fuga: in quindici anni donne raddoppiate” redatto dalla giornalista pubblicista Annamaria Vicini, di Milano,  col sottotitolo “Il gender gap spinge le giovani a lasciare l’Italia”. Per favorire il rientro servono incentivi fiscali consistenti e un welfare famliare più solido.” Il medesimo testo è stato ripreso anche dall’ANSA, nello stesso 14 11 2023 (qui)  . 

Se ne vanno in aereo, non su navi ottocentesche; con un trolley leggero, niente valigie di cartone legate con lo spago. Ma la speranza di trovare una vita migliore è la stessa dei loro bisnonni che si definivano emigrati mentre loro preferiscono expat.

Sono i giovani (ma non solo) che lasciano l’Italia, un Paese da cui si sentono respinti e delusi: sono circa cinque milioni ma forse anche di più, perché questo è il numero ufficiale di chi si è registrato all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) e non comprende tutti coloro che vivono in una sorta di limbo senza riuscire a decidersi se restare qui o lasciare definitivamente il suolo natìo.

Il 44% sono giovani tra i 18 e i 34 anni, stanchi di non trovare un’occupazione soddisfacente ed equamente retribuita (i lavoratori italiani guadagnano in media 3.700 euro in meno dei colleghi europei), frustrati per non poter programmare una vita autonoma al di fuori delle mura domestiche di mamma e papà ma anche per la difficoltà di sentirsi protagonisti della vita sociale e politica in un Paese sempre più anziano.

“L’Italia che cresce fuori dell’Italia”, secondo una definizione del Rapporto                           

In GOOGLE: State of the Global Workplace: 2023 Report 

 Italiani nel mondo 2023, della Fondazione Migrantes, che ne traccia un identikit abbastanza sorprendente anche perché questo fenomeno che sta diventando sempre più di massa è stato perlopiù ignorato dai mezzi di comunicazione.

“Una nuova importante questione giovanile italiana (ma anche europea)”, è l’allarme che la Fondazione prova a lanciare, “che tocca diversi piani: da quello identitario, a quello esistenziale, da quello occupazionale a quello professionale, fino al protagonismo e alla partecipazione sociale. Una questione per la quale tanto si parla, ma per la quale ancora troppo poco si fa. E i giovani, i giovani adulti e, sempre di più, anche i giovanissimi bruciano i tempi e, stanchi di attendere, trovano soluzioni e risposte in altri luoghi lontano da casa”.

All’interno di questa ondata di giovani e meno giovani che abbandonano il Paese si situa anche una nuova “questione femminile”: tra il 2006 e il 2023 le donne sono praticamente raddoppiate e costituiscono il 48,2% degli attuali espatriati. E diversamente da quello che qualcuno potrebbe immaginare non emigrano per ricongiungersi a mariti e compagni: ad attrarle è la prospettiva di una vita più gratificante, di un lavoro che ne riconosca appieno il merito e le competenze, di maggiori possibilità di carriera.

“Malgrado le iniziative politiche italiane”, si legge ancora nel documento diffuso da Migrantes, “il rapporto dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), pubblicato a dicembre 2022, (qui)  evidenzia che, a fronte dell’incremento occupazionale riscontrato, il gender gap non migliora. Tra i dati riferiti si cita il mero 6,6% delle donne che trovano lavoro dopo il parto e, con riferimento alla cosiddetta “fuga di cervelli”, si riscontra che una delle sue cause più rilevanti è il “mancato sostegno e valorizzazione dell’occupazione femminile” che, tra l’altro, rappresenta una delle cause principali del calo delle nascite, di cui, proprio nel 2022, è stato toccato il minimo storico.”

E verso dove si dirigono i “cervelli in fuga”?

La destinazione preferita resta l’Europa, sia per la vicinanza geografica che per la facilitazione nel disbrigo delle pratiche amministrative. Nel caso specifico delle donne un altro motivo di questa preferenza è il fatto che la maggior parte di loro parla correntemente una/due lingue europee.

E a tal proposito è bene ricordare che gli expat nel loro complesso hanno un titolo di studio in prevalenza medio-alto (circa il 58% possiede almeno un diploma).

Una perdita di talenti del tutto evidente per il nostro Paese, cui negli anni si è cercato di porre rimedio con agevolazioni principalmente di tipo fiscale per coloro che volessero rientrare in patria.

In effetti, nel decennio 2012-2021, i rimpatri sono più che raddoppiati e la tendenza è in aumento. Tuttavia, secondo il rapporto della Fondazione Migrantes, “il volume dei connazionali che rientrano in patria non è sufficiente a compensare la perdita di popolazione dovuta agli espatri che, durante lo stesso periodo e fino all’anno della pandemia, sono aumentati in misura considerevole, facendo registrare saldi migratori (differenza tra entrate e uscite) sempre negativi”.

In particolare a essere più restia a tornare è la fascia dei 30-40 anni, caratterizzata dalla presenza di famiglie con bambini e per la quale quindi pesano maggiormente sia le difficoltà di spostamento, sia la scarsa attrattività del welfare familiare in Italia.  Non è un caso, infatti, se tra le regioni preferite per i rientri spicca in positivo il Trentino Alto-Adige, dove i servizi per l’infanzia e di sostegno alle famiglie sono migliori e più diffusi rispetto al resto del Paese.

Il governo, con la legge di Bilancio in esame al Parlamento, ha approvato per il 2024 una serie di misure che puntano a sostenere le famiglie con due o più figli: il bonus nido per esempio viene aumentato per chi ha già un figlio con età inferiore ai dieci anni, le madri lavoratrici a tempo indeterminato con almeno due figli vengono esonerate per un anno dal versamento dei contributi a loro carico, mentre le imprese che assumeranno donne con almeno due figli minori avranno una deduzione fiscale.

Misure che andrebbero ad aggiungersi alle già esistenti maggiorazioni dell’assegno unico universale per le famiglie più numerose, tra cui quella del 50% per i bambini fino ai tre anni per le famiglie con almeno tre figli.

Ma saranno sufficienti a convincere le giovani coppie che hanno sperimentato in altri Paesi dell’Ue welfare famigliari ben più robusti del nostro?

Anche perché, come si evince da un’analisi pubblicata sul Sole24orele difficoltà sono maggiori per le coppie che danno alla luce il primo figlio: se la spesa mensile cresce del 5,3% con il secondo, l’aumento per il primo figlio è del 15%.

Grande sconcerto ha anche provocato la misura fiscale approvata dal governo lo scorso 16 ottobre che diminuisce dal 70% al 50% l’agevolazione per gli impatriati “con elevata specializzazione e qualificazione” fino a 600mila euro di reddito all’anno, introducendo anche requisiti più stringenti per accedere come l’aumento a tre anni del periodo di residenza all’estero e a cinque anni di permanenza in Italia dopo il rientro.

“Gli incentivi per il rientro del capitale umano sono un buon investimento (un costo oggi con dei benefici domani) se disegnati per attrarre e trattenere espatriati e stranieri che altrimenti non si sarebbero trasferiti in Italia”, scrive la voce.info (Rischio boomerang sul rientro dei cervelli  Giuseppe Ippedico) che compie un’analisi del provvedimento da un punto di vista strettamente economico. “Ma rimangono pur sempre un palliativo, poiché non affrontano le cause strutturali che spingono così tanti a lasciare il Paese.”

NOTE AL MARGINE  SUL CAPITALE UMANO 

IL MATTINO  Domenica 23 Febbraio 2014, 18:34
«Un italiano vale 342mila euro». Istat senza pietà: francesi, spagnoli e americani valgono di più. L’Istat per la prima volta stima il capitale umano. E, come al solito, siamo la maglia nera dei big Ocse.

«Il capitale umano di ciascun italiano equivarrebbe a circa 342mila euro». Lo stima l’Istat, che diffonde per la prima volta «informazioni sperimentali circa il valore monetario attribuibile allo stock del capitale umano», cioè la capacità di generare reddito. La domanda, in sostanza, è: quanto denaro può produrre la vita di un uomo?
La cifra, riferita al 2008, riguarda le attività di mercato.

ITALIA INDIETRO RISPETTO AI BIG OCSE
L’Italia sconta «un rilevante gap in termini di stock di capitale umano» rispetto ai «principali Paesi Ocse». Lo constata l’Istat nella ricerca dedicata al capitale umano. Anche se l’aggiornamento dei dati validi per il confronto internazionale si ferma al 2006, si tratta comunque di stime nuove, diffuse per la prima volta.
Ecco che l’Italia è ultima tra Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna, ovvero tra gli stati che hanno aderito al progetto Human Capital dell’Ocse. Nel 2006 quindi «l’Italia presenta una più bassa incidenza di capitale umano sul Pil nominale: 8,8 volte il Pil contro le oltre 11 volte della Spagna o le 10 volte e mezzo degli Stati Uniti». Anche se, prosegue l’Istat, nel decennio compreso tra il 1998 e il 2008 in Italia si è osservata una crescita, dovuta all’aumento del tasso di occupazione e del livello d’istruzione della popolazione, fondamentale per misurare il capitale umano.

IL METODO PER LA STIMA DEL CAPITALE UMANO
Alessandra Righi – Monica Montella, Istat – La stima dello stock di capitale umano in Italia, 2013 –  Risultati dello studio progettuale Istat (qui)

La misura del capitale umano è un argomento molto dibattuto e questo lavoro, servendosi dell’approccio income-based che quantifica in termini monetari il capitale umano misurandone la capacità di generare reddito, mette per la prima volta a disposizione informazioni importanti su una delle risorse fondamentali del paese. Le stime qui fornite costituiscono i risultati preliminari di un esercizio pilota realizzato in Istat. Il lavoro presenta un primo tentativo di stima del valore dello stock di capitale umano sia per la parte impiegata in attività market (produzione di beni e servizi venduti sul mercato, inclusa nel quadro centrale del sistema dei Conti nazionali) sia per la parte impiegata in attività non market (produzione di beni e servizi ceduti e fruiti gratuitamente). Per la parte non market sono considerate le attività riferibili alla produzione domestica e all’uso del tempo libero. Le stime connesse con le sole attività di mercato (riferite alla popolazione in età 15-64 anni) – per le quali esiste già una serie storica prodotta dall’Ocse per il periodo 1998-2006 – mostrano che nel 2008 lo stock di capitale umano è pari a circa 13.475 miliardi di euro, ovvero un valore pari a quasi 2,5 volte il valore del capitale fisico netto esistente nel nostro Paese e oltre otto volte quello del Pil. Espressa in temini pro capite, la stima indica che il capitale umano di ciascun italiano vale circa 340 mila euro. Gli uomini detengono una quota di capitale umano connesso con le attività market decisamente più elevata di quella attribuibile alle donne (66% contro 34%) e un rapporto analogo emerge tra la componente più giovane rispetto a quella più anziana della popolazione in età lavorativa. Le nuove misure sembrano confermare la presenza per il nostro Paese di un significativo gap in termini di stock di capitale umano rispetto ai principali paesi Ocse. Ciò condiziona negativamente le prospettive di crescita economica e soprattutto di incremento della produttività complessiva nel medio-lungo periodo. Tuttavia, la crescita del livello di capitale umano pro capite nel periodo 1998-2008 è un segnale positivo che merita di essere sostenuto e stimolato con opportune politiche di sviluppo. L’invecchiamento avrà delle conseguenze negative sullo stock di capitale umano (in termini reali), in Italia come in molti altri paesi, e si conferma che solo una crescita piuttosto sostenuta dei livelli di istruzione della popolazione potrà compensare in futuro tali effetti. Quanto al valore dello stock di capitale umano in Italia connesso con le attività non di mercato, la stima sperimentale del valore figurativo di questo stock (riferito anche in questo caso alla popolazione in età 15-64 anni) indica per il 2008 un valore di circa 16 mila miliardi di euro, di cui 6 mila attribuibili alla produzione familiare e circa 10 mila alle attività del tempo libero. Si tratta di uno stock pari a oltre 10 volte il Pil. Con l’aggiunta delle attività non di mercato e, in particolare, della produzione familiare, in cui prevale di gran lunga la componente femminile, si riequilibra parzialmente la composizione per genere dello stock di capitale umano. Inoltre, al crescere dell’età si realizza uno spostamento dello stock di capitale umano dalle attività di mercato a quelle di produzione familiare e tempo libero. L’approccio income-based utilizzato in questa sperimentazione, pur presentando limiti significativi soprattutto nell’applicazione alle attività non di mercato, permette di cogliere elementi sull’importanza relativa dei diversi fattori che contribuiscono all’evoluzione del capitale umano (le tendenze demografiche, dell’istruzione e del mercato del lavoro) e di trarne indicazioni per le policy rivolte ad accrescere la competitività dell’economia e a migliorare l’equità e la coesione sociale.

https://www.istat.it/it/files/2014/02/Il-valore-monetario-dello-stock-di-capitale-umano.pdf pagg. 51

Quale futuro per l’Europa? Percorsi per una rinascita a cura di G. Sapelli e G. Vittadini, BUR Saggi, 2014
Capitale umano, istruzione, sviluppo di Giorgio Vittadini pagg. 18
https://www.crisp-org.it/vittadini/wp-content/papers/other/giorgio_vittadini_2075.pdf

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