C’è qualcosa che accomuna Benjamin Franklin e Adam Smith? Sono vissuti nel Settecento: il primo nato nel 1706, il secondo nel 1723; morti nel 1790. Si conoscevano e forse divennero amici a Londra. Entrambi, padri fondatori, l’uno degli Stati Uniti e l’altro della moderna scienza economica. A noi pare intravedere nell’apprendimento per innovare un filo sottile che li lega. Franklin, attivamente impegnato nella mutua collaborazione al fine di apprendere. Smith, riandando alla propria esperienza di studente al Balliol College di Oxford, deciso nella sua denuncia del “tradimento dei chierici” perpetrato dai professori che venivano meno alla loro missione di sostenere l’apprendimento perché impegnati a coltivare interessi di bottega.
Suscitare la conversazione per ‘cambiare insieme’: questo il proposito che – sosteneva Benjamin Franklin nella sua Autobiografia – è perseguibile avendo “di mira l’informare e il venir informato, il dar parere o il persuadere”, adottando il metodo socratico dell’”umile investigare” e perciò “rinunziando al [….] modo reciso di contraddire e argomentare positivo”. L’istruirsi a vicenda attraverso la conversazione era nelle corde di Franklin. Nel 1727, in giovane età, egli formò un gruppo di discussione, lo Junto Club, che perseguiva gli ideali di conoscenza e libertà che contraddistinguevano i più celebri salotti parigini di quel tempo. L’apprendere conversando coinvolgeva una dozzina di amici che s’incontravano il venerdì sera. Sullo spirito del team e gli obiettivi condivisi di reciproca collaborazione, così scriveva Franklin:
“Le regole da me stese richiedevano che ogni membro alternativamente proponesse un quesito o due su qualunque argomento di Morale, Politica o Filosofia Naturale, per venire discusso in seno alla compagnia, e ogni tre mesi presentasse e leggesse uno studio suo proprio su un soggetto di sua scelta. I nostri dibattiti dovevano svolgersi sotto la direzione di un Presidente ed essere animati da un sincero desiderio di ricerca della verità senza spirito litigioso o ambizione di vittoria. E perché non ci si scaldasse troppo, ogni espressione troppo assoluta di opinioni o contraddizioni dirette venne dopo qualche tempo messa al bando e punita con piccole multe.”
Se Franklin tesseva la tela dell’apprendimento, i professori di Oxford la disfacevano. Questa la denuncia del misfatto nelle parole di Adam Smith, Capitolo 5, Parte 3 della sua grande opera “La ricchezza delle nazioni”, pubblicata nel 1776:
“La disciplina dei collegi e delle università in generale non è concepita per il vantaggio degli studenti, ma per l’interesse, o più esattamente per il comodo, degli insegnanti. Se l’autorità cui [il docente] è sottoposto risiede nella corporazione, collegio o università, di cui egli stesso è membro e in cui la maggior parte degli altri membri sono, come lui, persone che sono o dovrebbero essere insegnanti, è probabile che essi facciano causa comune, che siano tutti molto indulgenti l’uno con l’altro e che ognuno consenta al suo collega di trascurare il suo dovere, purché anche a lui sia concesso di trascurare il suo. Nell’università di Oxford, la maggior parte dei pubblici professori ha per molti anni abbondato del tutto anche l’apparenza di insegnare.”
Le idee di Benjamin sono state riprese da quanti sostengono la cultura dell’innovazione aperta, con, in prima linea, l’Open Innovation Strategy and Policy Group che ha le sembianze del Junto Club frankliniano. Al contrario, “Le idee di Smith…– rimarcava John Kenneth Galbraith nella sua Storia dell’economia – non sarebbero accolte in una moderna università americana”. Da quando così scriveva Galbraith, sono trascorsi tre decenni. Poco o nulla è cambiato da allora. Nel Bazar vale ancora il gattopardesco “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi“.
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