Si delinea, oggi, uno scontro geo-economico e strategico tra Cina e Francia, in tutto il quadrante africano, con Parigi che sostiene gli Usa, in una nuova relazione bilaterale; e la Cina che modifica la sua penetrazione economica nel Continente Nero.
In una nuova relazione con la Federazione Russa.
Vediamo ora i dati principali: per quest’anno la Banca Africana per lo Sviluppo ha previsto una crescita dell’1,9% in Africa Australe, del 2,2% in Africa Centrale e addirittura del 3,4% nell’Africa dell’Est e del Nord.
Si sta andando, comunque, verso un rallentamento della crescita economica in tutto il globo, un rallentamento che sarà siglato dall’arrivo e dal superamento della soglia a 100 Usd del prezzo del barile di petrolio.
Se, infatti, si vanno a vedere i dati e le serie statistiche, le grandi crisi economiche e finanziarie recenti sono state innescate da un aumento significativo del prezzo del petrolio.
A cui l’Occidente regge con sempre maggiore difficoltà.
Nell’Africa dell’Est, continuando il nostro discorso, la crescita sarà addirittura del 5,7%, il tasso maggiore del mondo, oggi, a parte alcuni Paesi dell’Asia.
Ma lo sviluppo africano ha due facce, quella della crescita del PIL e l’altra, non meno importante, dell’aumento dell’indebitamento esterno di molte nazioni del Continente Nero.
Un indebitamento dell’Africa che riguarda soprattutto la Cina.
Possiamo osservare qui dei casi già molto gravi: nel gennaio del 2017, il Mozambico ha infatti dichiarato la sua impossibilità a ripagare alla scadenza le quote del suo debito estero, a causa di un debito occulto, acceso dalle sue imprese, per ben 1,8 miliardi di Euro.
Nell’agosto dell’anno scorso, il 2017, il Congo ha poi dovuto rivalutare il suo debito al 120% del suo PIL (prima era il 77%) per simili motivi.
L’indebitamento occulto è una delle piaghe dell’Africa attuale. Vale il 34% del PIL totale africano di oggi. Indebitamento soprattutto in valute estere, spesso acceso con banchieri poco raccomandabili, tra cui elementi della criminalità organizzata italiana e di altre aree; il che, ovviamente, favorisce l’acquisto, da parte della Cina, di imprese africane che costano ormai un pugno di riso.
In Nigeria, il 60% delle entrate dello Stato va oggi a pagare il servizio del debito pubblico, con evidenti e prevedibili sommosse interne nel prossimo futuro, dato che il governo di Abuja non ha riserve per la spesa pubblica produttiva e il necessario sostegno alla povertà.
Nel Ghana, il governo di Nana Akufo-Addo, al potere dal gennaio 2017, ha assunto su di sé il debito accumulato dai suoi predecessori, che vale oggi l’80% del PIL.
L’Angola, la seconda potenza petrolifera subsahariana, è anch’esso pieno di debiti e in fase di diminuzione delle estrazioni.
Dovremmo essere, in Angola, al 90% del PIL, con un trend debitorio in forte ascesa.
La Cina, lo abbiamo già accennato, ha già in mano gran parte del debito africano.
Possiede, Pechino, il 70% del debito pubblico camerunense. Un dato similare lo possiamo verificare in Kenya.
Poi, le banche internazionali ci informano che l’appetito per il credito cinese è aumentato, in tutta l’Africa, dal 2010 al 2014, del 54%.
Una cifra mai raggiunta da nessun Paese sviluppato, nei rapporti bancari e di sviluppo economico con l’Africa.
Fino al 2017, però, la media del debito pubblico africano era al 45% del PIL.
Ma oggi, secondo la Banca Africana per lo Sviluppo, almeno 11 dei 35 Paesi a basso reddito medio dell’Africa sono ritenuti ad altissimo rischio di super-indebitamento.
Il basso costo delle materie prime, ormai da anni, è stato l’innesco della crisi, che diventerà certamente gravissima nella fase del “picco del debito” che, per l’Africa, dovrebbe arrivare nel 2021.
Nello stesso momento, alcuni Stati africani hanno però cominciato a prestare ad alcuni Paesi emergenti, sempre africani, ovviamente ad un tasso superiore a quello a loro concesso. Paesi che non avevano alcun accesso al credito internazionale.
E con materie prime in calo da molto tempo; e inoltre un costo della manodopera crescente e l’aumento dell’instabilità politica interna, generato dalla crisi della spesa pubblica per un pur minimo Welfare State.
Una spirale del debito che ha già permesso a ben 32 Paesi africani di accettare le condizioni capestro dei Fondi privati di riciclo del debito, che acquisiscono i titoli a prezzi stracciati, per poi rivenderli a un prezzo maggiorato ai buoni clienti europei e americani.
Nel lontano 1996, peraltro, Costa d’Avorio, Ghana, Camerun, Gabon, Rwanda e Kenya hanno accettato il programma PPTE (Pays Pauvres Trés Endèttees) della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, un programma che ha imposto loro una rigida manutenzione della spesa, per permettere successivamente un rientro nel meccanismo del credito internazionale.
Le ricette sono ben note: privatizzazioni, nella credenza che il privato sia metafisicamente meglio dello Stato, riduzioni pesanti della spesa corrente, riduzione della spesa per la sicurezza e per gli investimenti, anche per quelli produttivi.
Ciò, come è facile immaginare, ha creato una crisi profondissima nei redditi delle classi più povere e un vero e proprio annichilimento delle prospettive per le giovani generazioni.
Che, infatti, fuggono irragionevolmente verso l’UE. O nel fortissimo interscambio di forza-lavoro tra i vari paesi africani.
I Paesi più indebitati dell’Africa sono, nell’ordine, oggi, l’Africa del Sud, il Sudan, l’Egitto, il Marocco, la Tunisia, l’Angola, la Repubblica Democratica del Congo, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Kenya. Un continente già distrutto, quindi, prima di essere reso sufficientemente produttivo.
Ironia della sorte, molti di questi Paesi sono anche nell’elenco delle Nazioni più ricche dell’Africa: Egitto, Africa del Sud, Nigeria. Sempre in ordine decrescente.
La Francia, però, ha perso il suo ruolo tradizionale di primo investitore in Africa.
Tra il 2015 e il 2016, per esempio, la Cina ha investito nel Continente Nero ben 38,4 miliardi di Usd, Gli Emirati Arabi Uniti, già il secondo investitore nel Continente, è arrivato, nello stesso periodo, a 15 miliardi di Usd.
Ma è l’Italia il primo investitore tra i Paesi europei, soprattutto attraverso l’ENI.
Non la Francia, quindi, che è solo sesta con 7,7 miliardi di Usd investiti.
La Federazione Russa, intanto, rafforza i suoi storici legami con l’Algeria, predispone una zona di libero scambio nel Maghreb, con al centro il regno alawita del Marocco, costruisce centrali nucleari in Egitto e nell’Africa del Sud, con ulteriori esportazioni di granaglie russe verso i Paesi africani più poveri.
Poi, la Russia sta organizzando progetti di collaborazione paritaria in Guinea Equatoriale, Burundi, Zambia, Uganda, Zimbabwe.
Le aree che meno interessano alla Cina o dove vi può essere collaborazione tra Pechino e Mosca, con i russi che si interessano di agricoltura e petroli; e i cinesi che fanno infrastrutture e operano nel mercato delle altre materie prime.
La Cina è già proprietaria al 98% del coltan mondiale, la columbite-tantalite che serve per tutti i circuiti elettronici commerciali. E che si trova nella Repubblica Centroafricana.
Le esportazioni della Francia in Africa, però, sono quasi dimezzate nel 2018 rispetto ai dati del 2000, dall’11% al 5,5%.
In Senegal, poi, la caduta delle esportazioni francesi è stata del 25% nel 2017, una perdita che ha favorito localmente la Turchia, la Spagna e, soprattutto, la Cina.
Certo, l’Africa francofona, quella legata al Franco CFA, per intenderci, di cui peraltro abbiamo già parlato, è una fonte colossale di materie prime, con il 14% delle riserve energetiche al mondo e il 22% globale delle terre abitabili.
Tramite l’Africa del Franco CFA, la francofonia, che da sola è il 4% della popolazione mondiale, rappresenta ancora il 16% del PIL mondiale e il 20% degli scambi globali di merci. La Francia di Macron, ma anche quella del più amorfo predecessore Hollande, vogliono creare allora un mercato comune autonomo, da giocare anche contro una UE avversa, tra economia dell’Esagono e quella della francofonia africana.
Ed è proprio questo il punto di contrasto geopolitico con la Cina.
Ma Pechino ha ancora molte frecce al proprio arco.
Nel giugno scorso, per esempio, il Burkina Faso ha annunciato di aver interrotto le proprie relazioni con Taiwan, per riconoscere solo la Repubblica Popolare Cinese.
Il primo passo che Pechino chiede a tutti i propri partenaires.
La Cina ha inoltre raddoppiato il commercio bilaterale degli Usa con l’Africa già nel 2013.
L’inizio del nuovo rapporto tra la Cina e l’Africa, dopo la teoria maoista “dei Tre Mondi”, in cui però la Cina popolare diventava il leader del Terzo Mondo, dopo i due “imperialismi” americano e sovietico, avviene dopo la crisi di Piazza Tien An Men, nel 1989, per sfuggire all’isolamento dettato dall’Occidente (e dalla Russia, che aveva all’epoca i suoi bei problemi da risolvere).
E’ poi da notare che molti dirigenti attuali africani sono stati educati proprio in Cina.
Pensiamo a Joseph Kabila, leader della Repubblica Democratica del Congo, che ha studiato alla Università Nazionale della Difesa, a Pechino.
O a Mulatu Teshoma, presidente dell’Etiopia, che ha studiato filosofia e economia politica, con un dottorato in diritto internazionale, all’Università di Pechino, oltre a successivi studi negli Usa, alla Tufts University.
Oppure ancora a Emmerson Mnangagwa, presidente dello Zimbabwe, già allievo della “Scuola di Marxismo” dell’Università di Pechino, con un periodo successivo di addestramento al combattimento a Nanchino.
E, ancora, ricordiamo che il leader attuale dello Zimbabwe ha studiato ingegneria militare, sempre in Cina, per poi ritornare in Tanzania nel 1964.
Come risponde allora la Francia? Nel luglio 2018 Macron ha visitato la Nigeria, prima era stato in Ghana, ma è evidente la sua intenzione di conquistare non la vecchia francofonia africana, ma un largo consenso anche nella parte anglofona del Continente Nero.
Per il presidente francese l’Africa si è anch’essa “mondializzata” e occorre quindi uscire dal vecchio perimetro tradizionale della françafrique.
Il concetto che informa Macron non è più quello classico, della Françafrique, appunto, ma quello dell’AfricaFrance.
E’ questo il senso con cui il presidente francese ha offerto il ruolo di presidente della Organizzazione Internazionale della Francofonia proprio a Paul Kagame, il presidente del Rwanda.
Dalla cultura autonoma africana, da rivitalizzare, secondo Macron, alla ripresa dell’economia e delle imprese francesi in Africa: il mercato francese nel Continente Nero è caduto dall’11% nel 2003 al 5% nel 2017.
Nel contempo, la Cina è passata dal 3% del 2001 al 18% panafricano del 2017.
La Germania, perfino la Germania, ha oggi superato la Francia per il commercio estero con l’Africa.
Certo, il presidente della Francia vuole anche che l’Esagono rimanga il gendarme dell’Africa, come ai tempi della guerra fredda, ma intende restringere la sua lotta “al terrorismo”, ovvero più esattamente al jihad della spada, nell’area del Sahel, che è e sarà il centro futuro della presenza militare francese in Africa.
Per il resto, Macron intende occuparsi di business, limitando al massimo il ruolo securitario della Francia nella Africafrance.
Ecco quindi anche il senso del ruolo, sempre più importante, che sarà attribuito al G5 Sahel, ovvero alla Force de Securité Conjointe de la Mauritanie, du Mali, du Burkina Faso, du Niger et du Tchad.
Insomma, la Francia, secondo i suoi migliori analisti strategici, vuole prevenire le battaglie geoconomiche future, mantenendo il suo ruolo strategico globale; e quindi vuole proteggere le sue antiche colonie africane contro gli effetti predatori e nefasti della globalizzazione.
Ovvero, Parigi tende a produrre un nuovo “mercato comune” africano tra la sua economia e quella in via di sviluppo della sua antica Françafrique.
Ecco quindi il senso delle recenti operazioni militari Francia-G5Sahel: la Barkhane, iniziata il 2014 con 3000 militari francesi, oltre ovviemante a quelli del G5-Sahel, con base a ‘Ndjamena, la capitale del Ciad, poi l’operazione Serval, per eliminare il jihad della spada in Mali, poi ancora l’Operazione Epervier, una azione francese antiterrorismo tra Camerun e Ciad.
Le altre due Operazioni militari a comando francese, la Sangaris e la Licorne, la prima nella Repubblica Centrafricana, cessata nel 2016; e la seconda una azione di peacekeeping in Costa d’Avorio, sostituita nel 2015 dalle “Forze Francesi in Costa d’Avorio”, sono state peraltro un relativo successo, ma con un progressivo sostegno da parte dell’Africa Command statunitense.
Ma come la mettiamo con il Franco CFA, che è ormai un argomento polemico dentro e fuori l’AfricaFrance?
Per alcuni capi di Stato africani, che non vogliono evidentemente cedere alla Cina o ad altri nuovi giocatori nel campo africano, il CFA “va bene” e “fa il bene del popolo africano”, per usare le parole esplicite del presidente ivoriano Alassane Ouattara.
Per Macron, poi, il franco CFA è “una moneta che funziona e che va modernizzata insieme”.
Ricordiamoci però che la Francia è intervenuta militarmente in Africa, dal 1968 al 2013, ben 42 volte.
Parigi non mollerà mai l’Africa, ma non ha la liquidità per farlo davvero, ma anche la Cina non mollerà certo l’Africa, e non interverrà mai militarmente, se non colpita direttamente, pur mettendo dentro il Continente Nero capitali in grande quantità.
Come si riformerà quindi il Franco CFA?
E’ facile prevederlo: con un aumento del suo valore rispetto all’Euro e una nuova regolamentazione interna nei rapporti tra la Francia e gli altri partenaires africani.
Il gioco francese in Africa funzionerà, fino a quando l’economia cinese rallenterà e quindi ci saranno meno capitali da Pechino per investirli in Africa.
Ma la Cina è già una importatrice netta di semilavorati, abiti e prodotti di base da Paesi come, per esempio, l’Etiopia, mentre molti Paesi africani continuano a importare dalla Cina beni ad alto valore aggiunto e capitali per la industrializzazione di base.
In Africa, la Cina tende a ripetere il suo sviluppo, quello dei primi tempi della fase delle “Quattro Modernizzazioni”.
La soluzione più probabile, quindi, sarà, a breve, una concentrazione di potere francese nel G5 Sahel, con una parallela perdita di ruolo di Parigi nel quadrante orientale del Continente Nero.
Mentre la Cina continuerà ad espandere la sua influenza in Africa, dal Sud fino all’Africa Centrale subsahariana, arrivando poi all’Egitto e alla Costa atlantica settentrionale del Continente.
Giancarlo Elia Valori