Ferlinghetti, una vita per la poesia: arriva in Italia il documentario su un protagonista della beat generation

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in foto Lawrence Ferlinghetti

di Erika Basile

A dieci mesi dalla scomparsa di Lawrence Ferlinghetti, possiamo rivederlo e riascoltarlo in “Lawrence. A Lifetime in Poetry”, un documentario realizzato da Giada Diano, traduttrice e sua biografa ufficiale, ed Elisa Polimeni, filmaker e curatrice delle mostre d’arte e retrospettive a lui dedicate.
Il profondo legame di amicizia, che le ha unite al poeta, pittore, editore e libraio, restituisce una “confessione” intima e spontanea, che segue il ritmo delle emozioni, senza nessun filtro. Il documentario, presentato in anteprima a San Francisco il 24 marzo 2019, per il suo centesimo compleanno, e nel dicembre dello stesso anno, in occasione del concerto di Omar Pedrini al Fabrique di Milano, ha debuttato al 62° Festival dei Popoli e ora è finalmente distribuito nelle sale da Garden Film. Lo sguardo gentile e irriverente, la barba bianca, il sorriso ironico, gli immancabili cappelli: Ferlinghetti, con naturalezza, ci accoglie nel suo studio a Hunter’s Point, ci mostra la sua libreria, ci porta in giro sul pick-up rosso e, con ironia, parla di sé, della sua vita, dell’arrivo a San Francisco, della decisione di aprire la “City Lights” e del legame con l’Italia. Ma soprattutto racconta di poesia e di poeti, della straordinaria esperienza della beat generation, di impegno civile e politico, di solidarietà verso gli ultimi. Cita Pier Paolo Pasolini, Dante Alighieri, Vladimir Majakowskij; con leggerezza e allegria, ricorda aneddoti su Allen Ginsberg e Gregory Corso, e l’incontro di “Carlo e Albertine”, i suoi genitori, che “si innamorarono su un autoscontro a Coney Island, inseguendosi per tutto il luna park”.
Alle immagini di San Francisco, la più europea e tollerante delle città americane, e ai primissimi piani, che indugiano sui suoi occhi, ancora illuminati dalla meraviglia del mondo, si accompagnano animazioni da romanzo grafico. La voce, calma ma appassionata, segue lo svolgersi del viaggio tra i luoghi fisici e quelli della mente. Il viaggio di un sognatore “realista”, calato completamente nel suo tempo, che continua a osservare il mondo e lo reinventa attraverso la poesia, convinto che non esista nulla di più radicale e sovversivo della tenerezza e che l’indifferenza nei confronti dei soprusi equivalga all’esserne complici. Insieme a Jack Hirshman discorre di anarchia e socialismo, con la stessa passione di un giovane militante, e ricorda i suoi 19 giorni nel carcere californiano di Santa Rita per aver pubblicato “Howl and others poems” di Allen Ginsberg, in cui la “parola si fece carne”. Un testo sconvolgente, ritenuto osceno dai benpensanti e dai puritani dei rigorosi anni ‘50, prima espressione esplicita della controcultura, che annuncia i temi del movimento hippy del decennio successivo.
Il processo contro di lui ha un’incredibile risonanza: si mobilita l’Unione Americana delle Libertà Civili e i maggiori poeti intervengono a favore di Ferlinghetti e Ginsberg. La difesa ricorre al primo emendamento, per sostenere la libertà di stampa nei casi di pubblicazioni controverse, che avessero rilevanza sociale e culturale, e la sentenza del giudice Clayton Horn conclude, di fatto, quella fase della censura americana cominciata con il processo contro la “Little Review”, che aveva pubblicato l’Ulisse di Joyce. San Francisco, “allora piccola capitale di provincia”, diventa l’avamposto del sogno di libertà americano, centro di una cultura alternativa, ribelle e psichedelica, di cui Ferlinghetti costituisce il punto di riferimento. Il linguaggio non è più quello che nasce nelle accademie, ma lo stile sperimenta nuovi fraseggi e nuove strutture, come era avvenuto nel jazz con il bebop, in contesti diversi. Nelle cantine e nei teatri alternativi, i poeti beat si esibiscono in reading insieme ai musicisti. Kerouac vuole essere considerato “un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session la domenica pomeriggio” e, in generale, la poesia assorbe suggestioni e ritmi dalla nuova avanguardia musicale, nata, anch’essa, da un rifiuto dei linguaggi dominanti. “Don’t call me Beat. I was never a Beat poet”: Ferlinghetti è un intellettuale con una robusta formazione culturale e, pur incarnando gli ideali e lo spirito della beat generation, privilegia un approccio diverso alla realtà del suo tempo. Non gli appartiene la smania di protagonismo e l’egocentrismo di molti suoi “compagni”, e neppure il bisogno di allontanarsi dalla realtà, attraverso l’uso di droghe ed eccessi di ogni genere, ma, al contrario, egli asserisce la necessità che il poeta debba contribuire attivamente a salvare la civiltà dall’auto-distruzione: “Lo stato del mondo reclama a gran voce che la poesia lo salvi. /Se vuoi essere poeta, crea opere capaci di rispondere alla sfida dei tempi apocalittici, anche se questo significa sembrare apocalittico. […] /Se ti definisci poeta, non startene lì seduto. La poesia non è un’occupazione sedentaria”. Ferlinghetti predilige poeti dei quali percepisce una sensibilità affine, come Prévert e Pasolini, che considera il più grande intellettuale del ventesimo secolo e traduce in inglese – con la collaborazione di Francesca Valente – per un’antologia di poesie, “Roman Poems”, pubblicata nel 1986 nella celebre collana Pocket Poets.
La vita di Ferlinghetti (“Io sono come Omero” è, non a caso, il titolo della biografia scritta da Giada Diano) è stata una lunga avventura, da ultimo dei bohemiéns. Il padre, bresciano emigrato a New York, dove decide di cambiare cognome in Ferling, muore pochi mesi prima della nascita di Lawrence. La madre, franco-portoghese, impazzisce per il dolore e viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Rimasto orfano, viene affidato alla zia Emily e si trasferisce a Strasburgo. Solo dopo essersi arruolato in Marina, scopre il vero cognome di suo padre (che deciderà di riacquisire) e, quindi, le origini italiane. Da lì comincerà un lungo percorso alla ricerca delle proprie radici, che lo porterà più volte, nell’arco della vita, in Europa e in Italia. Dopo aver vissuto l’esperienza della guerra, da ufficiale comandante di un sommergibile d’appoggio al convoglio navale che sbarca in Normandia, e aver visto gli orrori della bomba atomica a Nagasaki, sviluppa un sentimento antimilitarista e pacifista. A Parigi, durante il dottorato alla Sorbona, conosce il poeta anarchico Kenneth Rexroth e George Whitman, proprietario della libreria “Le Mistral” – poi diventata “Shakespeare and Company” –, che lo stesso Whitman definiva “un’utopia socialista mascherata da libreria”. Solo due anni dopo, Ferlinghetti apre il City Lights Bookstore, a San Francisco, con Peter Martin, figlio illegittimo di Carlo Frasca, anarchico italiano assassinato a New York. E poi anche la casa editrice, per dar corpo a quelle voci ribelli e rendere accessibile a tutti la cultura, con la pubblicazione della prima raccolta di poesie in edizione tascabile, perché il fine ultimo dell’arte è quello di contribuire a sviluppare il pensiero critico e di fornire a tutti gli strumenti necessari per comprendere il mondo, come ricorda Ferlinghetti. Pensa alla sua libreria come a “una casa per chi altrimenti non saprebbe dove sedersi per leggere un buon libro”. Infatti, diventa un punto di riferimento per quella “fauna asociale di San Francisco che si nutre di sogni e poesia”, per scrittori e artisti – come Allen Ginsberg, Gregory Corso, William S. Borroughs, Michael McClure, Jack Kerouac, Charles Bukowski – stanchi, come lui, dei rigidi schemi accademici e con la voglia di confrontarsi e sperimentare una assoluta libertà espressiva. Un “club” aperto fino a tarda notte per poeti, amanti della letteratura e del mistero, dove si crea e diffonde controcultura, per tutti coloro che si oppongono a quella che egli definisce la “Coca Cola Colonization” dell’America. Un luogo dove si può leggere senza acquistare, trovare stampa alternativa e tutto ciò che altrove non viene accettato. “Sebbene fosse conosciuto di più come poeta – ricorda Giada Diano – si considerava prima di tutto un pittore. Diceva sempre di sperare che prima o poi quelle dannate poesie lo lasciassero in pace in modo che lui potesse semplicemente tornare a dipingere. Ma questo non è mai accaduto perché la scrittura lo ha accompagnato fino alla fine, come anche la pittura e gli altri mezzi espressivi”. In “tempi perversi che invocano perversione”, come risposta alle intollerabili frustrazioni quotidiane, da intellettuale e artista poliedrico, Lawrence Ferlinghetti ha contribuito al rinnovamento della cultura americana e, animato dalla passione civile e politica, non ha smesso di “aspettare /perpetuamente e per sempre /una rinascita della meraviglia”. Con lo sguardo innocente dell’utopia, ha espresso il suo essere profondamente anarchico: la sua arte è nata dall’urgenza del racconto, dal bisogno di raffigurare, attraverso le poesie e i dipinti, visioni, idee, bellezza e “sillabe di sogni”.