Emigrazione sanitaria, dal Sud al Nord per curarsi anche nel 2023 

Foto di Martha Dominguez de Gouveia su Unsplash

C’è un treno dell’alta velocità che è partito da Reggio Calabria, taglia tutta l’Italia sino a Torino, è un giorno come tanti altri, dei primi della settimana e di metà giugno, è pieno, e si pensa subito che si tratti dell’assaggio d’estate, invece, sul vagone incontro volti preoccupati, animi angosciati e un filo di speranza, raccogliendo storie di vita comune, di pazienti e familiari in viaggio per salute. E’ uno schiaffo dritto in faccia, uno spaccato di vita comune, che penseremmo essere lontano trovandoci nel 2023 ed essendo uniti dal criterio universalistico del sistema sanitario nazionale, invece, dal Sud si parte ancora per il Nord per curarsi. Un fenomeno in crescita negli anni con una battuta d’arresto solo durante la pandemia. E’ chiamata mobilità sanitaria, la scelta dei cittadini di curarsi in una regione diversa da quella di residenza, alla ricerca qualitativa e quantitativa dei servizi, in altre parole di assistenza sanitaria adeguata in termini di professionalità, tempi d’attesa congrui, e di servizi efficienti ed efficaci. 3,3 miliardi di persone si muovono ogni anno dal Sud al Nord, secondo i dati raccolti dalla Fondazione Gibe sul movimento tra regione alla ricerca di cure. Tre le regioni che raccolgono metà della mobilità: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, in attivo anche il Friuli Venezia Giulia. Invece, fuggono dalla propria regione, l’83.4% per curarsi i cittadini di sei regioni Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Abruzzo e Basilicata. Alla forte capacità attrattiva sanitaria delle grandi regioni del Nord corrisponde quella estremamente limitata del Centro Sud con la sola eccezione del Lazio. In Campania si stima una spesa di mobilità sanitaria passiva di 340 milioni di euro per prestazioni erogate in altre Regioni. Il dato è stato estrapolato nel 2019, ma fa pensare a quanto sia cresciuto negli ultimi anni, all’indomani anche della pandemia. Non di meno altre regioni del Sud, si pensi alla Sicilia dove ogni anno il 50% dei pazienti sceglie un’altra regione per curarsi, generando un debito di 210 milioni di euro a carico del sistema sanitario regionale e delle famiglie. La maggior parte dei pazienti che emigra deve sottoporsi a terapie oncologiche e oncoematologiche, un terzo dei ricoveri extraregione è associato a un intervento chirurgico. Impensabile ma vero, ci sono anche i pazienti pediatrici. Un bambino che vive nel Mezzogiorno ha un rischio del 70% più elevato rispetto a un suo coetaneo del centro nord di dover emigrare in altre Regioni per curarsi. Un altro dato allarmante è fornito dal ricorso alle strutture private del Nord, anziché alle strutture pubbliche, in quanto forniscono liste d’attesa fuori emergenza al cospetto della struttura pubblica. Creando così un divario sanitario senza precedenti. La mobilità sanitaria è un fenomeno gigante, dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche, che riflette le grandi disuguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e soprattutto tra il Nord ed il Sud del Paese. Impossibile delineare un valore della mobilità sanitaria. Ma le ricadute non sono solo per le regioni e per il sistema sanitario nazionale, emergendo una sanità che in Italia funziona a puzzle, ma anche sul paziente, si pensi ai costi a suo carico, sia che si tratti di un intervento in regime intramoenia, in regime libero o privato se si è optato per una clinica privata; ma anche ai costi di trasferta, di permanenza, anche perché il paziente non è solo ma con un familiare. Ciò rende la possibilità di curarsi una fortuna ma anche un lusso, che molti non possono permettersi. Sembra proprio che di fronte alla salute non siamo più tutti uguali. Un tempo li chiamavano i viaggi della speranza, poco è cambiato, tali sono quando si è costretti a curarsi e a stare accanto ad un malato ospedalizzato fuori regione. Ci si trova obbligati a fare i conti, oltre che con la preoccupazione per la salute, anche con le difficoltà della distanza: lasciare la propria casa, trasferirsi in un’altra città, cercare una sistemazione almeno per il periodo della malattia e mettere in standby il proprio lavoro per seguire le cure. Curarsi in un posto distante centinaia di chilometri dalla città o dal comune in cui si vive non è mai un’esperienza priva di conseguenze, anche per chi dispone di ingenti risorse economiche, non è indolore assentarsi dal lavoro, abbandonare la cerchia stretta di parenti ed amici, accettare di rimanere isolati e disorientati nella stanza di un ospedale che per quanto sia efficiente ed accogliente, è comunque un contesto nel quale si acuisce il senso di sradicamento. Ma la realtà sanitaria è fatta di sotto finanziamento, liste d’attesa fuori controllo, fuggi fuggi dei medici, carenza di medici di base, pochi infermieri in servizio, apparecchiature obsolete.  Con un sistema sanitario pubblico e universalistico ormai perso in molte regioni del sud. Un danno incalcolabile che sta aprendo la strada ad una sanità regolata dal libero mercato. La sanità pubblica sta morendo e la salute è diventato un affare personale e privato. E se pensavamo di aggrapparci al Pnrr è solo un’illusione. Infatti, i 18.2 miliardi portati in dote dal Pnrr per creare nuovi ospedali, case della comunità, sistemi digitali di medicina territoriale a domicilio, ammodernamento tecnologico svanisce quando si considera che per far funzionare le nuove strutture servono fra i 30 e i 100 mila infermieri, con un costo annuo fra i 3 e i 7.8 miliardi. Soldi e personale che non sono stati neppure preventivati. C’è un’urgenza da inserire in agenda ed è quella sanitaria.