É tempo di bilanci, almeno quelli in bozza. Per i definitivi c’è il modello EU per le aziende

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Il documento contabile definito bilancio è composto da un’insieme di poste numeriche che, solitamente a cadenze regolari come possono essere i mesi, i trimestri e l’anno, dovrebbe rappresentare lo stato in cui si trova la realtà a cui è riferito. Più precisamente dà la misurazione del suo operare, del tipo se genera solo costi o anche ricavi e, per entrambi, indica in che quantità.Tale metodologia si presta a essere applicata anche a fatti di gestione che non riguardano il Paese con l’insieme delle attività che gli sono proprie, come la sanità, l’istruzione e via elencando. Può riguardare anche altri aspetti non esprimibili solamente con sequenze numeriche ma anche con espressioni letterali che rafforzano, in positivo o in negativo, il significato delle cifre. Essi riguardano principalmente la qualità della vita e vanno dalla sicurezza nelle città alla gestione dei servizi pubblici. Questa particolare categoria di bilanci o budget, talvolta riguardante valutazioni contemporanee, più spesso quelle ex post, possono fornire indicazioni che completano il quadro di un sistema socio economico altrimenti arido e poco significativo. Segue una breve nota che vorrebbe essere di aiuto a dare un minimo di ordine alla sequenza di fatti che stanno interessando il Paese e non solo esso. Dando per scontato che l’economia non è una scienza esatta, è necessario non tralasciare che, a partire dagli anni ’60, soprattutto le scuole di quella materia dell’Europa del Nord, impressero una svolta sostanziale alla modalità con cui approcciarla. Ritennero le stesse che quasi tutti i comportamenti del cosiddetto Homo oeconomicus, quello che fa di conto e tende a massimizzare le sue entrate e a minimizzare le sue uscite, potessero essere ingabbiati in un reticolo di equazioni valido e sufficiente di per sé a dare un’immagine della realtá, in un determinato luogo e in un lasso di tempo preciso. Senza però considerare che quell’ atteggiamento adottato da ogni essere umano non è tetragono ai sentimenti dell’altra sua parte, l’Homo ludens. Ebbene, per quest’ultimo, è sempre valido il detto molto usato nel villaggio che suona: “vale più uno sfizio che cento ducati”. Volendo con ciò dire che se qualcosa piace, si fanno anche salti mortali senza rete pur di ottenerla. Tanto serve a introdurre la descrizione
sommaria di una situazione di cui l’informazione di recente ha dato, senza strillare, la notizia dell’andamento del risparmio privato, sia familiare che aziendale. Sono 1.600 i miliardi che giacciono nelle casse degli istituti di credito, la maggior parte sotto forma di liquidità corrente, cioè non investiti ma liberi e pronti per essere prelevati al presentarsi di ogni evenienza che deve essere fronteggiata con denaro liquido. Nell’ ultimo triennio, paradossalmente, la propensione al risparmio, non solo quella marginale, ha continuato a crescere, nonostante il Paese in toto si stesse impoverendo. Da quest’ultima constatazione derivano almeno due conclusioni che invitano a riflettere sulla effettiva portata delle sole rappresentazioni numeriche. La prima è che l’assunto più che datato degli economisti del secolo scorso, che assumevano come ipotesi che, per ogni sistema economico politico, valesse l’equazione risparmio=investimento, debba essere rivisto. Se le somme di entrate in senso lato non sono in parte spese però restano infruttifere o sono assoggettate a redditività negative, l’ipotesi di quella uguaglianza innanzi citata va presa con le pinze. La seconda, senz’altro più importante, è che quella somma potrebbe essere, anche solo in parte, immessa nel circuito produttivo e contribuire alla ripresa del Paese, e invece ciò non avviene. Con un vantaggio in più. Oltre al reddito prodotto dall’investimento che hanno permesso di realizzare, il servizio di quelle somme, cioè gli interessi corrisposti per il loro utilizzo, resterebbe nella disponibilità di chi vive e opera nel Bel Paese. A questo punto fuoriesce la constatazione che fa svanire bruscamente quel sogno. Anche se non mancano sul mercato prodotti finanziari convenienti, emessi dal Tesoro con la garanzia dello Stato, gli stessi suscitano in maniera non sufficiente l’interesse dei risparmiatori. I motivi? La mancanza di fiducia di questi ultimi nei confronti degli amministratori pubblici e di altre pratiche riconducibili a chi li governa. Come ciliegina sulla torta è sotto gli occhi di tutti l’affaire Doha/Bruxelles, che amplifica a dismisura le remore appena accennate. In effetti la logica di quei risparmiatori non si allontana molto da quella degli agricoltori che un tempo tenevano ben custodito sotto una mattonella o nel materasso il loro gruzzolo. La conclusione non è edificante e porta a esprimere una affermazione non certo consolatoria. Essa vale che, se non si riesce a sottrarre la filiera delle spese pubbliche dalle grinfie del malaffare, non si potrà fare affidamento su programmi e piani, seppure elaborati secondo i canoni più rigorosi delle discipline aziendalistiche e economiche.
A molti tali conclusioni non andranno giù con facilità, ma così è se pare agli Italiani, si, proprio quelli con la I maiuscola. Anche in caso contrario, è opportuno aggiungere. A buon intenditor, poche parole.