Il libro “Attualità del mio Novecento” propone una sorta di storia del secolo attraverso le cronache rivissute e interpretate da un suo protagonista Leone Piccioni, figlio di uno stimato avvocato democristiano, ministro di De Gasperi, che passò dalla legge alle lettere e alla poesia per svolgere un ruolo significativo nella letteratura e nella realtà sociale dell’Italia novecentesca. Il racconto, che si snoda sotto forma d’intervista condotta da Silvia Zoppi Garampi, è, in realtà, un colloquio che dà nuova luce a momenti cruciali della nostra storia recente. Leone Piccioni ha anche lavorato ad alto livello per creare una televisione che formasse un popolo.
L’occasione per questo libro di ricordi nacque nel 2003 quando Leone Piccioni tenne una lezione sull’Infinito di Leopardi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’entusiasmo dei giovani si tradusse nella volontà di ricavare un’intervista con finalità didattiche sulla cultura del Novecento. La stessa, conservata in registrazioni, dopo la trascrizione è stata rivista nel 2014-2015 dall’autrice e dall’autore novantenne. Arricchita della premessa di Roberto Mussapi e della postfazione di Daniele Piccini è stata data alle stampe dalla Libreria Dante&Descartes. Non si tratta di <<pettegolezzi della memoria>>, né di un compianto dei bei tempi andati, ma di una profonda riflessione sulla crisi della radio, sulla fine dei giornali, dell’editoria come momento di decadimento spirituale, con grande attenzione alla contemporaneità senza la quale il passato è mobili in stili, il futuro fantascienza. Piccioni è un vero critico che segue una sua rotta, partendo dalla letteratura, dalla lezione di Ungaretti, un intellettuale che è prima di tutto uomo libero e etico, la cui città è il Mondo. Uomo della Resistenza, si è impegnato per la resurrezione culturale e morale del nostro amato Paese che si è progressivamente tirato fuori dalla vergogna fascista.
Nella lunga intervista si sofferma sulla scrittura femminile e sul ruolo delle poetesse e delle narratrici nel Novecento che spiccano al pari degli uomini. Tra esse ricorda Alda Merini, affetta da disturbi psichici gravi, malata di lunga degenza presso manicomi, che ha celebrato con le sue poesie sessualità e religione, facendo appello ad una profonda spiritualità. Grande estimatore di Anna Maria Ortese, con la quale ha avuto degli scambi epistolari intensi dopo averla conosciuta a Rapallo, l’ha definita una donna in continua trepidazione, una donna che se riceveva una gentilezza te la restituiva moltiplicata per mille, e che se riceveva invece un’offesa non replicava, si chiudeva nel suo silenzio. La Ortese fu autrice di libri molto belli su Napoli e su figure mitologiche partenopee. Piccioni, menziona anche la narratrice e poetessa Lalla Romano, le scrittrici Natalia Ginzburg e Isabella Bossi Fedrigotti. L’intervista analizza i primi decenni di studio letterario dal 1946 al 1968 e di esperienza in RAI, nonché il lavoro di scrittura per la terza pagina del <<Popolo>>, per poi ricordare il lavoro critico e l’impegno civile dal ’69 all’ ’89.
Negli anni Settanta iniziò a scrivere sulla terza pagina del quotidiano <<Il Tempo>> su invito di Gianni Letta e si è sempre considerato un cattolico liberale, sigla cara alla prima Democrazia cristiana di De Gasperi, perché vi era sì l’appello cristiano, ma anche un forte appello per la libertà. Questa posizione con la Seconda Repubblica ha subito sempre sconfitte perché è difficile trovare dei cattolici liberali indipendenti in determinati partiti. Piccioni ha sempre creduto nel giornalismo e ritiene che un certo tipo di giornalismo di alto livello, come in America, debba avere alle spalle dei giornali forti, capaci di incidere sulla politica e sulla società. Il giornalismo vero richiede obiettività, fedeltà all’informazione, anche quello televisivo, e soprattutto una cultura alle spalle e la capacità di esprimersi in buon italiano. Radio e televisione influiscono molto sull’italiano e sull’educazione delle nuove generazioni. La poesia resta, tuttavia, per Piccioni l’arte per eccellenza perché la significatività di un testo, come quello di Ungaretti, può unire i lettori e i popoli, emozionando ancor più della musica. La parola evoca, scuote, muove all’azione.