Coronavirus: economia di guerra, azioni di guerra

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È opinione e senso comune che sconfitto il coronavirus ci troveremo a fronteggiare una realtà economica e sociale che sarà tanto più deteriorata quanto più a lungo dureranno gli effetti della pandemia. E nessuno può oggi dire, al di là delle proiezioni formulate sulla base dell’esperienza, quando si potrà tornare alla normalità.
È inoltre auspicato, anche per dare e darsi conforto, che di fronte alle macerie industriali tra le quali si troveranno a dibattersi imprese e lavoratori si avrà la forza di reagire come al tempo del dopoguerra, quando alle macerie materiali si rispose con l’energia e il coraggio di una ricostruzione che ebbe del miracoloso.
Da qui una lunga serie d’invocazioni all’unità, all’orgoglio nazionale, allo spirito degli anni Cinquanta e Sessanta durante i quali si edificò l’Italia moderna che oggi conosciamo: seconda manifattura d’Europa e una delle prime del mondo, patria del bello e ben fatto, museo a cielo aperto per le bellezze naturali e artistiche che ospita.
Ci sarà bisogno di uomini all’altezza della situazione, si dice. Capaci di affrontare i tanti problemi che affioreranno con la stessa passione e la stessa carica che i nostri genitori e i nostri nonni misero nella ricostruzione. Se ce l’abbiamo fatta una volta, ragioniamo tutti o quasi, ce la faremo anche stavolta.
E si rimanda alla necessità di affidarsi a un secondo Piano Marshall dal nome del generale americano che ideò e coordinò gli aiuti americani, pronti e generosi, che consentirono all’Europa di tirarsi su dopo un conflitto globale che, di poco a ridosso del precedente, l’aveva lasciata stremata e decimata.
Con i soldi a stelle e strisce, scelte politiche indovinate, la volontà e le braccia di uomini e donne che non si fecero dominare dallo sconforto, si riuscì laddove molti desideravano arrivare anche se pochi pensavano di farcela realmente. Fu un successo collettivo che ci riabilitò agli occhi di ex nemici e concorrenti.
Quello che non si dice con sufficiente convinzione è che nel frattempo è molto cambiato il contesto normativo e burocratico all’interno del quale dovrebbe maturare il nuovo prodigio che tutti invocano. Al di là della competenza e della qualità delle persone che si troveranno a guidare la riscossa, restano difficoltà insormontabili.
Quello che abbiamo completamente perso, e che non si può recuperare come una fabbrica o un palazzo, è la capacità di assumere decisioni e di applicarle in tempi rapidi. Oggi tutti sperimentiamo la difficoltà, l’impossibilità, far funzionare con efficienza efficacia e tempestività il nostro sistema democratico.
L’inghippo, il rinvio, i distinguo, il palleggio delle responsabilità, il disimpegno sono diventati i tratti dominanti di scelte che non diventano mai definitive, che una volta prese si possono revocare e una volta revocate si possono cambiare, pasticciare, annullare. In una girandola di posizioni in cui spesso ci si perde.
E non esisteva una magistratura occhiuta che promuove leggi liberticide alla quali poi si appella – legittimamente a questo punto – quando entra in campo, troppo spesso a gamba tesa, per punire ogni tipo di comportamento che non sia di semplice inerzia. Chi s’impegna, in queste condizioni, quasi sempre è perduto.
Ci vuole il coraggio di smontare il meccanismo perverso che abbiamo costruito e rimontarlo daccapo perché funzioni davvero a vantaggio della collettività come nelle premesse delle comunità nascenti: senza timidezze, senza ripensamenti. Se siamo in guerra e la vogliamo vincere dobbiamo agire di conseguenza.