Coronavirus: 3 regole per smart working anche post lockdown

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Roma, 1 apr. (Labitalia) – “Tenendo conto che il tessuto italiano è composto da pmi e che più del 40% delle aziende utilizza lo smart working in modo informale, al rientro delle attività sarà necessario riformulare le organizzazioni anche alla luce di questa nuova esperienza”. Parola di Simone Colombo, Hr fractional ed esperto di direzione del personale in outsourcing. Secondo il consulente, “in questo momento lo smart working va a colmare una situazione di emergenza, in cui le aziende, per non chiudere, hanno fornito al personale di ufficio l’opportunità di lavorare da casa, mandando avanti allo stesso tempo un minimo di attività commerciale, amministrativa e di gestione ordinaria. Le stesse, però, dovranno investire sempre di più su questo strumento per il futuro, in modo da proteggersi da future emergenze di questo tipo, salvaguardando l’operatività”.

È quindi fondamentale tenere conto di 3 aspetti fondamentali che rischiano di mettere in crisi il sistema in caso di un lockdown protratto oltre il mese inizialmente stimato: sicurezza digitale, comunicazione interna, engagement. Per quanto riguarda il primo aspetto, al sicurezza digitale, osserva, “la maggior parte delle aziende sta spingendo i dipendenti all’attività in smart working senza avere idea di come affrontare in modo serio la questione, mettendo di fatto a rischio i dati aziendali”. “Molto spesso a casa, utilizzando dispositivi personali e non forniti dall’azienda, si tende a trascurare le misure di sicurezza, non si adottano (o non in maniera adeguata) sistemi antivirus/antimalaware, e si sottovalutano i piccoli rischi normalmente connessi alla navigazione in rete e solitamente accettati con ingenuità (accesso a siti pericolosi, download, ecc.)”, avverte.

“Cercando di semplificare un tema che semplice non è, ci pare corretto affermare che la maggiore criticità sia data dal fatto che i dipendenti usino i loro dispositivi personali per accedere ai sistemi aziendali, ivi incluse le connessioni di rete (Adsl, WiFi, ecc.) dove magari non si sono modificati i parametri standard, o le password amministrative, (disponibili con una semplice ricerca su Google)”, allerta il consulente. “In tale scenario, è quindi alta la possibilità che i computer abbiano malware attivi, o che qualcuno possa intercettare le nostre comunicazioni senza particolari difficoltà: una prospettiva seriamente pericolosa quando si accede ai sistemi aziendali”, dice. Il consiglio dell’esperto è, quindi, quello di “non usare sistemi personali, neppure per leggere la posta elettronica, ma ricorrere sempre a dispositivi forniti dall’azienda, sui quali dovrebbero essere attivi e verificati con regolarità sistemi di sicurezza adeguati”.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, la comunicazione interna, Colombo fa notare che fare smart working non significa semplicemente eseguire certe attività in remoto ma lavorare per obiettivi. “In pratica è una diversa organizzazione del lavoro che richiede una definizione chiara degli obiettivi, delle modalità di relazione all’interno del team e una comunicazione semplice, immediata, diffusa. Comunicare tanto potrebbe non essere efficace, mentre comunicare poco potrebbe non fornire i giusti dettagli per l’attività da svolgere o per permettere ai propri colleghi di svolgerla al meglio”, spiega Colombo. “La soluzione è quella di utilizzare tools e applicazioni che permettano, da una parte, di organizzare i lavori e, dall’altra, un costante contatto con i colleghi (ad esempio Asana, Trello, ma anche gruppi Whatsapp, Telegram per i broadcast etc). Allo stesso tempo, è fondamentale l’attività di coordinamento. Per chi lavora a distanza qualche riunione in più da remoto è utile per chiarirsi e comprendere meglio le problematiche, tenendo alto il livello di collaborazione e di appartenenza del gruppo”, osserva.

“Comunicare a distanza significa anche manifestare apertamente feedback ai propri colleghi, scegliere l’atteggiamento giusto nel condividere i propri pensieri, essere sempre aperti al confronto, coinvolgere il team nelle decisioni importanti. Certo, tutto questo è sempre importante a prescindere dal fatto che si lavori in smart working ma la distanza e la diversa modalità di organizzazione del lavoro potrebbero far dimenticare questi aspetti che restano comunque rilevanti per il buon funzionamento di un team”, chiarisce ancora Colombo.

Il terzo aspetto riguarda la solitudine dello smartworker e gli effetti sull’engagement, quindi l’importanza dell’interazione. “Lavorare da casa – prosegue l’esperto – aumenta il senso di solitudine, ma soprattutto il livello di isolamento dall’organizzazione, favorendo talvolta il disingaggio. La modalità di lavoro agile riduce le occasioni di confronto con i colleghi, quelle in cui si condividono competenze e si può ricevere aiuto un modo immediato per task nuovi e poco familiari. Analogamente si riduce la possibilità di condividere momenti di pausa, come quello alla macchinetta del caffè”.

“In un certo senso, i colleghi rappresentano una fetta importante del circolo sociale di molte persone e lavorare da remoto può essere difficile per chi ha più bisogno di interazione. Siamo esseri umani e la relazione è alla base della nostra esistenza. Per questo motivo, è necessario mantenere una comunicazione aperta, supportata magari da strumenti di instant messaging o da sistemi di feedback continuo che verifichino il polso della situazione. Sempre di più vengono sviluppate piazze virtuali, ovvero veri e propri social aziendali proprio per mantenere quelle situazioni ‘da macchina del caffè’ che aiutano al confronto, alla conoscenza ed alla risoluzione dei problemi”, spiega l’esperto.

Ma come si possono superare questi ostacoli e quali sono le modalità concrete per farlo? “La sfida futura per le aziende – risponde – sarà quella di riuscire ad avere un sistema di gestione che definisca gli obiettivi per ogni area di lavoro e riesca a misurarli, ora che nella misurazione manca la variabile tempo e spazio e soprattutto non è possibile indire riunioni o verifiche quando si vuole, lasciando il lavoratore libero (ma al contempo abbandonato) di autodeterminare la propria attività”. “Bisognerà ripensare i singoli reparti, a cascata e con un’organizzazione divisa secondo cicli temporali (trimestrali, semestrali o annuali): tutti, dall’amministratore delegato in giù, devono avere dei compiti da raggiungere (i keyresults), chiari, definiti, misurabili, specifici, concreti. I keyresults devono essere coerenti con l’obiettivo primario aziendale, trasparenti e verosimili”, sottolinea.

“Sicuramente le aziende dovranno ragionare su come rendere lo smart working uno strumento efficace o ‘di riserva’ per non trovarsi impreparati di fronte ad altri periodi di isolamento, che stando a ciò che gli scienziati prevedono, si susseguiranno molto più di frequente in futuro”, rimarca. “Un periodo prolungato di smart working necessita di un’organizzazione e di una cultura aziendale che può essere introdotta solo da manager o esperti di settore, in quanto certe competenze non sono reperibili nelle pmi, ma saranno indispensabili per migliorare l’agilità organizzativa che da sempre è stata il punto di forza strategico delle piccole aziende”, conclude Colombo.