Lo stato di reclusione è sempre stato lo strumento principale con cui affrontare le frange della popolazione più difficili da controllare o, comunque, pronte a creare problemi. Segregare qualcuno in uno spazio limitato significa soprattutto vietare o sospendere le comunicazioni con lui, rendendolo un escluso. Le istituzioni carcerarie, ispiratesi al Panopticon di Bentham, sono concepite come case di correzione in cui il controllo totale ha il preciso scopo di allontanare i reclusi dalla strada della perdizione sulla quale si sono avviati di propria volontà o sulla quale sono stati spinti. In queste case di reclusione l’idea stessa di correzione si riduce a mettere al lavoro i reclusi, arrestandone la dissoluzione morale, l’inettitudine e la mancanza di rispetto per le norme sociali.
Sembra, tuttavia, che i precetti di un’etica del lavoro non si concilino con il regime coercitivo delle prigioni per cui alla domanda se le case di correzione abbiano mai raggiunto il loro scopo di riabilitazione e di riforma morale, occorre rispondere di no, malgrado le migliori intenzioni.
La “prigionizzazione” è l’opposto stesso della “riabilitazione” al punto tale che nell’era, definita da Bauman post-correzionale, si tende ad attribuire alle prigioni un ruolo di prevenzione, di neutralizzazione o di classica punizione. È uno spazio in cui confinare i rifiuti e la feccia della globalizzazione.
Se lo slogan è “rendere le nostre strade di nuovo sicure”, quali altri metodi possono essere efficaci se non quelli che segregano gli individui pericolosi in spazi fuori della vista e fuori dell’altrui portata? Quasi ovunque il sistema carcerario sta assistendo a un boom di costruzioni e la spettacolarità delle operazioni punitive conta per il pubblico più della loro efficacia. Ciò suggerisce che nuovi e ampi settori della popolazione, per una qualche ragione, sono considerati una minaccia all’ordine sociale. In un mondo disorientato, in cui tutto appare lecito, e non sono chiare le regole del gioco, la pressante richiesta di sicurezza, di garanzie dell’ordine pubblico, il moltiplicarsi di infrazioni da punire sono un modo per fronteggiare lo stato di perenne ansietà che il fluttuare dei mercati e la penosa precarizzazione esistenziale comportano. Mobilità totale deve significare assenza di rischi.
In quest’asfissia morale non sorprende la scelta del governo rumeno di cambiare la legge che offre sconti di pena (sino a trenta giorni) a chi scrive libri in prigione. Quando, nel 2013, fu introdotta la norma, di certo, non si pensava all’originalità o alla rilevanza scientifica degli scritti ma al fatto che la lettura e la scrittura sono da sempre considerate mezzi d’elezione per consentire la migrazione da un livello spirituale più basso e afflittivo ad uno più nobile e ricco di senso.
Tra gli scrittori-carcerati rumeni vi sono molti condannati eccellenti: politici, imprenditori, importanti funzionari incriminati per corruzione. L’accusa del Ministro di Giustizia rumeno contro la produzione editoriale di questi carcerati, pari a 300 unità, è di non aver adottato alcun rigore accademico, con abuso di copia&incolla. Esprimere un giudizio così severo non equivale forse a dire che gli esclusi debbono restate esclusi, immobilizzati in uno spazio fisico e mentale limitato? Sembra poi assurda la tesi che tali sconti di pena, connessi alla produzione editoriale, abbiano addirittura influenzato negativamente la lotta alla corruzione. È molto più probabile che il Ministro abbia assecondato una collettiva volontà punitiva, frutto dell’attuale esasperato bisogno di sicurezza delle persone, solo per meschine esigenze elettorali, ignorando l’alto valore etico della scrittura.