Contratti bancari “monofirma”, la Cassazione è a favore dei clienti

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Con quattro recentissime sentenze – la n.5919 del 24 marzo, la n.7068 dell’11 aprile, la n.8395 del 27 aprile e la n.10516 del 20 maggio – la sezione prima della Corte di Cassazione, mutando il precedente orientamento in tema di contratti bancari cd. “monofirma”, ha  stabilito che la produzione in giudizio, da parte della banca, di un contratto sprovvisto della propria sottoscrizione e recante unicamente quella del cliente, non prova il perfezionamento del consenso tra le parti in forma scritta.

Gli effetti del nuovo corso giurisprudenziale saranno certamente dirompenti dal momento che, nella quasi totalità dei giudizi tra clienti ed istituti di credito, ad essere contestata è proprio la validità del contratto di accensione dei rapporti.

Ed infatti, nei giudizi aventi ad oggetto rapporti di conto corrente, il correntista lamenta quasi sempre che il contratto e le relative condizioni economiche (tassi di interesse, commissioni, spese, valute, capitalizzazione periodica, etc.) non sono stati oggetto di pattuizione scritta così come previsto dall’art.117 TUB.

Parimenti, nei giudizi aventi ad oggetto investimenti finanziari, l’investitore, non di rado, invoca la nullità degli ordini di acquisto dei prodotti finanziari a fronte dei quali ha subito delle perdite, asserendo che la banca (o l’intermediario finanziario) abbia operato in assenza della preventiva ed obbligatoria sottoscrizione del “contratto quadro” che disciplina il servizio di investimento.

In entrambe le tipologie di giudizio, l’istituto di credito, atteso che la disciplina dei contratti bancari e finanziari impone la forma scritta del contratto a pena di nullità (art. 117 TUB e art. 23 TUF), per rivendicare la correttezza del proprio operato e confutare la tesi avversa, è chiamata a esibire i contratti di accensione dei rapporti. Non di rado, però, la copia del contratto in possesso della banca (e depositata in giudizio), reca unicamente la sottoscrizione del cliente ma non quella dell’istituto di credito: trattasi, come detto, del contratto “monofirma”.

La questione inerente la validità giuridica del contratto “monofirma” – assai dibattuta in dottrina e in giurisprudenza – sembrava essere stata definitivamente risolta (in favore delle banche) dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.4564 del 22 marzo 2012, in cui i giudici ermellini avevano ritenuto che “sia la produzione in giudizio della scrittura da parte di chi non l’ha sottoscritta, sia qualsiasi manifestazione di volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto diretto alla controparte e dalla quale emerga l’intento di avvalersi del contratto, realizzano un valido equivalente della sottoscrizione mancante, purché la parte che ha sottoscritto non abbia in precedenza revocato il proprio consenso ovvero non sia deceduta”.

In ogni caso, secondo il precedente orientamento della Corte, in presenza di contratto sottoscritto dal solo cliente, la forma scritta ad substantiam risultava rispettata qualora quest’ultimo contemplasse la dichiarazione confessoria (resa dal cliente) attestante che “un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato”.

Con le pronunce dei mesi scorsi, la Cassazione, in via preliminare, prende atto dell’esistenza del suo precedente dictum del 2012, ma espressamente afferma che allo stesso “non può essere dato continuità”.

Quindi, ribadisce che il requisito della forma scritta ad substantiam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono contenute in documenti distinti (proposta e accettazione) purché risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo e, soprattutto, entrambe le scritture siano prodotte in giudizio ed ancora chiarisce che l’allegazione in atti – da parte della banca – del contratto sottoscritto dal solo correntista/investitore vale a perfezionare il consenso con efficacia ex nunc e non ex tunc, sempre che il cliente non abbia medio tempore revocato la proposta e purché sia ancora in vita al momento dell’esibizione in giudizio del documento.

Inoltre, i giudici ermellini – mutando radicalmente il proprio precedente orientamento – hanno affermato che dalla sottoscrizione da parte del cliente della dichiarazione confessoria di ricezione di copia del contratto sottoscritto dalla banca non può desumersi, per via indiretta, la stipulazione del contratto secondo i requisiti di legge.

La nuova posizione assunta dalla Suprema Corte riguarda anche la possibilità di ritenere provata la volontà negoziale dell’istituto di credito da comportamenti concludenti documentati da contabili, ordini di esecuzione, estratti conto ecc. prodotti in giudizio. Sul punto il Supremo Collegio afferma, oggi, che comportamenti concludenti non possono validamente dar luogo alla stipulazione di un contratto formale: l’eventuale documentazione depositata (contabili, attestati di eseguito, estratti conto) non possiede – afferma la Corte – i caratteri della “estrinsecazione diretta della volontà contrattuale”.

In sintesi, con le recenti pronunce la Cassazione sembra aver voluto assumere una posizione di maggiore tutela del correntista/investitore (il contraente più debole del rapporto banca-cliente). Eloquente, al riguardo, è il principio, affermato nella sentenza n.8395 del 27 aprile 2016, secondo cui la nullità del contratto non comporta necessariamente la nullità dell’intero rapporto, potendo il cliente avere interesse a un’eccezione di nullità “selettiva”, mirata a far caducare solo gli effetti del contratto rivelatisi svantaggiosi e a salvaguardarne altri, senza che ciò configuri “abuso del diritto”. Per il Supremo Collegio, difatti, la nullità del contratto per mancanza di forma scritta rappresenta una nullità c.d. “di protezione” che può essere fatta valere solo dal cliente se ritenuta a suo vantaggio (art. 127 TUB e art. 23 TUF). Nel caso specifico, secondo la Suprema Corte il cliente può legittimamente decidere di limitare ad alcuni investimenti “selezionati” – quelli a fronte dei quali ha subito perdite – gli effetti della invocata invalidità del contratto “quadro”, facendo salvi gli investimenti che hanno generato guadagni.

Resta da capire se il principio della “nullità selettiva”, nel caso si controverti su contratti di conto corrente, possa legittimare il correntista a richiedere l’accertamento della nullità delle sole clausole allo stesso sfavorevoli (ad esempio quelle disciplinanti i tassi di interesse debitori, le commissioni, i giorni valuta e la capitalizzazione delle competenze passive) e a considerare, di contro, valide le clausole a lui favorevoli (tasso di interesse creditore), benché contemplate in un contratto nullo.