Connessi o disconnessi? Il mondo che verrà

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Le multinazionali estere presenti in Italia rappresentano un grande valore per il Paese. Non solo dal punto di vista economico ma anche e soprattutto sotto il profilo del modello di business e dell’organizzazione aziendale. Insomma, sono un asset strategico per quello che esprimono e per quello che possono insegnare.
Senza contare che investono in ricerca e sviluppo mediamente di più di quanto non facciano le imprese omologhe nazionali e hanno un’attenzione più spiccata per quello che oggi passa sotto il nome di capitale umano. Vale a dire le persone, uomini e donne, che concorrono al successo delle iniziative.
Tutto questo e molto altro è raccontato nel rapporto congiunto tra Confindustria e Luiss presentato in pillole nei giorni scorsi presso l’Università a cura dell’Osservatorio sulle imprese estere in collaborazione con l’Istat. Il momento è di quelli che inducono a riflettere sull’interessante fenomeno.
L’effetto contaminazione, infatti, è da considerare in questo caso nei suoi risvolti positivi. La maggiore dimensione, l’appartenenza a filiere internazionali, la gestione manageriale sono tutti aspetti che tendono a influenzare in meglio l’apparato produttivo nazionale fungendo da favorevole benchmark.
Le buone pratiche evidenziate dallo studio si trasferiscono all’interno dei confini domestici innalzando il livello delle pratiche imprenditoriali e rendendo più consapevoli della propria missione sia i possessori del capitale che i lavoratori a ogni livello. Cresce, così, anche la consapevolezza del ruolo sociale.
Se una volta a marcare il campo c’era la convinzione che le ragioni del business dovessero prevalere su tutto adesso si fa strada la consapevolezza che a legittimare il ruolo e l’esistenza stessa dell’impresa sia principalmente la sua capacità di farsi portatrice di un benessere che vada ben oltre i cancelli della fabbrica.
Concepita in questo modo, l’intrapresa non assume più caratteristiche estrattive – alla base dell’antipatia e finanche dell’ostilità tradizionalmente suscitate tra il pubblico – ma si qualifica come motore di promozione e progresso. Perde l’accento egoistico di chi vuole tutta la ricchezza per sé e acquista riconosciute benemerenze.
Sotto questo profilo, dunque, la globalizzazione ha reso un ottimo servizio anche alle comunità locali. E riconoscerlo una volta di più è certamente un merito soprattutto quando numerose e tristi circostanze vorrebbero metterne in dubbio i vantaggi. O, meglio, inducono a enfatizzarne gli svantaggi.
L’esperienza delle tre crisi che si sono abbattute sul pianeta in rapida successione – finanziaria, sanitaria, energetica; ciascuna dovuta a sue specifiche cause ma tutte figlie dell’intima connessione del sistema che si è andato configurando da quando si è stabilito di costruire un mondo senza frontiere – induce a riflettere.
È meglio sfidare il futuro liberi da condizionamenti o e meglio munirsi di protezioni che mettano distanza tra noi e il prossimo? Dobbiamo confermare la nostra fiducia alla potenza unificatrice delle tecnologie o dobbiamo mettere un freno allo loro galoppante affermazione? Procediamo in avanti, ci fermiamo o andiamo indietro?
Un rimedio universale alle malattie del secolo non esiste. Di sicuro il meccanismo che regola il complesso intreccio delle connessioni tra persone e popoli, nazioni e istituzioni non sarà più lo stesso. E la tentazione di confidare sempre più sulle proprie forze diffidando di collaborazioni e condivisioni aumenterà.