Il 47% degli italiani, attestava l‘OCSE nel 2015, si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto capacità di analisi elementari: davanti a un evento complesso – la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread – è capace di trarre solo un livello di comprensione basilare. In altre parole, soffre di analfabetismo funzionale. E la percentuale è talmente alta da far balzare il nostro paese ai vertici di questa speciale classifica.
Fake newse bufale sono diventate più che mai un problema. Un problema serio, poiché incide profondamente sulla formazione dell’opinione pubblica e, quindi, sulle decisioni che i cittadini sono chiamati a prendere in democrazia. Nel 2016 non c’è stato evento rilevante nel quale lefake newsnon abbiano svolto un ruolo importante, forse decisivo.
È dai primi anni ‘60, ovvero dagli anni noti nel mondo della psicologia per la scoperta del fenomeno della dissonanza cognitiva, che gli psicologi studiano le manifestazioni dell’attaccamento emotivo delle persone verso credenze assurde e prive di logica basate su idee cospirative. In quegli anni, il tema in voga erano Ufo e alieni, oggi la paura dei vaccini e degli Ogm, le scie chimiche, oltre ai “sempreverdi” immigrati che rubano il lavoro, il signoraggio bancario e molte altre amenità utili a vendere libri e fatturare click online.
Di regola le persone non abbandonano quello in cui credono di fronte a prove contrarie, ma manipolano i fatti e gli argomenti per conciliare tra loro le contraddizioni. Ne parliamo con Gilberto Corbellini, professore ordinario di Storia della medicina alla Sapienza di Roma ma anche studioso di storia, filosofia e politica delle scienze biomediche.
Dobbiamo assumere che è tempo perso cercare di convincere un adulto che si professa informato dei fatti che le cospirazioni a cui crede non esistono?
Temo di sì. Esistono diversi studi dai quali si evince che le persone adulte accettano o meno un’informazione o una prova, dove sono in gioco elementi emotivi (rischio, cioè paura) o ideologici (politicamente o religiosamente connotati) non sulla base di un controllo dei fatti o valutandone la consistenza logica, ma usando altri criteri, come la fiducia che ripongono nella fonte, i modi in cui l’informazione viene presentata e in quale misura, credere o non credere alla fonte e all’informazione, influenza il fatto di essere accettati nel gruppo di appartenenza. Inoltre, la predisposizione a credere alle cospirazioni è innata nell’uomo e diventa quasi dominante nelle fasi di crisi sociale ed economica, perché si deve trovare a ogni costo qualche colpevole per fatto che le cose vanno male, ed è emotivamente tranquillizzante leggere la causa del disagio in manovre, azioni o poteri impalpabili o non conosciuti, ma dei quali si sente parlare e che hanno tratto vantaggi da un precedente benessere.
I tratti psicologici associati a forti credenze cospirative sono: sfiducia nell’autorità, bassi livelli di autostima, autoritarismo e fiducia nel paranormale. Il minimo comun denominatore è l’avversione alla scienza e al progresso. C’è un vaccino per curare questa onda crescente di irrazionalità?
Come per i vaccini veri, anche le eventuali contromisure per prevenire il contagio complottista dipendono dal momento nel quale sono somministrate. Nel senso che andrebbero forniti soprattutto nell’adolescenza alcuni strumenti cognitivi utili per evitare le trappole del ragionamento complottista, ovvero i bias cognitvi e sociali nei quali esso si radica durante lo sviluppo adolescenziale. Le ricerche di psicologia dello sviluppo cognitivo tendono a mostrare che i giovani hanno una precisa finestra di opportunità di maturare un’epistemologia critica, che vada oltre le fasi del dogmatismo e del relativismo. E diversi studi dimostrano che la maggior parte delle persone che arrivano anche alla laurea, soprattutto nelle scienze sociali e umane, ma non solo, non supera la fase dell’epistemologia relativista. Il relativismo epistemologico, ma anche quello morale, per cui non esistono fatti oggettivi e tutte le credenze morali sono equivalenti o legittime, sono davvero un veleno che corrode i fondamenti della modernità, e quindi i presupposti di qualunque progresso umano fondato su un’idea razionale di libertà.
Nel suo “Scienza, quindi democrazia”, ha illustrato come la scienza moderna abbia fornito gli strumenti per far funzionare l’economia di mercato e consentire la nascita della democrazia. Come è stato possibile, e oggi a quale tendenza assistiamo?
La mia ipotesi è che la scienza, intesa come metodo e come spiegazione causale dei fenomeni, abbia avuto un impatto sulla velocità di innovazione tecnologica, favorendo sempre più estensivamente e intensivamente la divisione del lavoro e quindi l’opportunità di scambi economici, che alimentano fiducia reciproca fra le persone e anche tra paesi estranei. Allo stesso tempo, la scienza ha fornito un modello del mondo governato da leggi, da cui sono derivate sia l’idea di stato di diritto (supremazia della legge) sia una visione dinamica dell’ordine sociale fondata sulla libertà individuale (quella dei moderni). La scienza portava anche alla nascita di una medicina davvero efficace e così produceva ulteriore benessere diffuso in termini di salute, migliorando la qualità, in termini di affettività e rispetto, a livello familiare. Inoltre, la mentalità scientifica, che ha ispirato numerosi teorici del repubblicanesimo/democrazia nel Sei-Settecento, a fine Ottocento ha cominciato a essere insegnata nelle scuole, e questo ha prodotto delle élite sempre più competenti e dei cittadini meno impulsivi, capaci di tenere sotto controllo le risposte intuitive in diversi contesti e di usare una ragione calcolatoria. Oggi la scienza è data per scontata, non ci rendiamo conto che il suo metodo non è intuitivamente comprensibile, e tendiamo ad aspettarci che funzioni come una sorta di magia. Oppure la si confonde con la tecnologia: prevale cioè la fretta di avere risposte applicative e ci si disinteressa delle dimensioni conoscitive o teoriche della ricerca, ma soprattutto del fatto che la scienza è un metodo per eliminare gli errori e controllare come stanno i fatti.
La democrazia richiede cittadini “illuminati” e dunque l’istruzione e la promozione della scienza sono assolute priorità. Quella dell’educazione è la vera emergenza nazionale da affrontare?
Penso che l’istruzione in Italia sia un’emergenza soprattutto rispetto a una mancanza di uniformità sul territorio: non è stato fatto niente per incentivare i professori a lavorare tutti o il maggior numero secondo standard sufficientemente elevati. Gli studenti e laureati italiani che vanno all’estero se la cavano in genere bene, perché il nostro sistema educativo ha delle qualità che sono però lasciate declinare. Inoltre, dopo le scuole o l’università non ci sono incentivi a mantenersi aggiornati e informati criticamente, mentre il mondo sociale ed economico evolve. Il che spiega i dati OCSE sull’analfabetismo funzionale.
La scienza è spesso “controintuitiva” e mette in discussione le nostre convinzioni più profonde. Questo la rende ostica e difficile da comprendere e da accettare; è un po’ quel che succede, in economia, con la concorrenza, l’apertura dei mercati e la competitività. Possiamo fare appello all’uso della ragione e del buon senso per provare a pensare sempre più con la testa che con la pancia?
Possiamo farlo, ma temo servirebbe a poco. La selezione naturale non ha selezionato i nostri antenati per essere interessati a imparare e a studiare la matematica o la fisica, ma per saper cacciare con efficienza in gruppo e proteggere la prole, né li ha dotati di preferenze per scambi economici a somma non zero, ma per essere invidiosi di chi è più ricco ed essere avversi al rischio. In altre parole, gli uomini, anche quelli che nascono nel mondo occidentale e liberale, vengono al mondo con gli stessi bias che per millenni non hanno consentito di creare economie di scambio efficienti né hanno visto affermarsi il metodo scientifico. Per formare persone adatte al funzionamento e allo sviluppo delle nostre società industriali complesse, noi costringiamo i giovani a studiare e acquisire le capacità controintuitive per tenere sotto controllo i bias cognitivi ed emotivi spontanei. Quindi non basta fare un appello per pensare più con la testa che con la pancia, perché se la testa non è stata opportunamente addomesticata, da sola non lo sa come tenere sotto controllo la pancia. Inoltre, anche l’uso della testa deve trovare un riscontro nella pancia, se non si vuole che prevalgano strategie strumentali che possono essere un rischio per sé o per gli altri. Le risposte emotive, che entrano in gioco anche nei nostri giudizi morali, non vanno viste in contrapposizione a quelle cognitive, ma come elementi di una dialettica continua. E deve in qualche modo trovare un appagamento, un premio nell’affrontare pragmaticamente la vita. Un po’ come in Spinoza, dove virtù e felicità coincidono. È ricerca, in ultima analisi, che “non ha mai fine”, come diceva anche Karl Popper.
In vista delle prossime elezioni del Bundestag, previste per settembre 2017, il capogruppo Spd, Thomas Oppermann, ha quantificato il prezzo per sanzionare le bufale: 500.000 euro di multa a Facebook per ogni notizia falsa pubblicata sul social network e non rimossa entro le 24 ore. Servirebbe a qualcosa?
Le bufale sono un po’ come le droghe. Le persone le mettono in circolazione o ci credono non per intenzionale cattiveria, ma perché ciò le soddisfa, o risponde a un bisogno innato e le rassicura. Proibirle e sanzionarne il consumo o la pubblicizzazione non è la strategia più intelligente, perché non se ne riduce comunque la circolazione e può diventare più difficile monitorarne il consumo e gli effetti. Senza dire del fatto che non è rassicurante investire qualcuno, lo Stato o il proprietario di Facebook, dell’autorità di stabilire cosa è vero e cosa è falso. Meglio la libera circolazione delle bufale, necessariamente insieme anche alle verità, e fornire attraverso i canali mediatici più strumenti e più argomenti per riconoscere gli inganni. Ma il paternalismo è un’altra delle predisposizioni che esprimiamo spontaneamente e che ci appare intuitivamente la soluzione migliore quando le persone ci sembrano impreparate, e nonostante millenni di storia dimostrino quanto sia dannoso, rimane in agguato e pronto a suggerirsi come soluzione per governare comportamenti dove apparentemente la libertà è usata in modo irrazionale. Intuitivamente e paradossalmente si pensa che sia un problema dovuto alla troppa libertà, mentre si tratta di limiti naturali o culturali della capacità delle persone di autodeterminarsi, cioè di avere un controllo sulle proprie scelte e decisioni rispetto a particolari contesti sociali. E non ci sono prove che dimostrino che le persone maturino più autonomia e autocontrollo se si privano in maniera autoritaria della possibilità di correggere i propri errori.