Cina in Africa

di Giancarlo Elia Valori

Un dato importantissimo, da tenere subito in mente: nel 2050, il 25% di tutta la popolazione mondiale sarà africana e oltre il 46% di essa avrà meno di 30 anni.
Come si possa quindi bloccare lo sviluppo economico mondiale lasciando questa immane massa di esseri umani fuori da ogni catena del valore è un folle paradosso e, probabilmente, il più grande tra i problemi che dovremo risolvere tra pochi anni e, anzi, per il quale avremmo già dovuto iniziare a fornire nuove soluzioni già da molti anni.
Per la prima volta, probabilmente, nella sua storia plurisecolare, il capitalismo blocca artificialmente il suo sviluppo e la sua naturale espansione geografica e tecnologica.
Non riusciamo qui a dare una risposta esaustiva a questa autocastrazione dell’occidente, economica, culturale, strategica.
Per la Cina di Xi Jinping, tutto però inizia nel 2015, alla Conferenza di Johannesburg del FOCAC, Forum on China-Africa Cooperation, dove 35 nazioni africane e Pechino si accordano per una serie di investimenti mirati in alcuni settori specifici dell’economia africana, per un totale di 60 miliardi di Usd: industrializzazione, anche e soprattutto delle imprese private e delle PMI, rapida e essenziale modernizzazione dell’agricoltura, e sarà tra pochi anni da oggi che, come prevede una studiosa nordamericana del sistema cinese, “l’Africa nutrirà la Cina”.
Poi le infrastrutture, in correlazione con l’OBOR, la Belt and Road Initiative, infine i servizi finanziari e la riduzione del debito sovrano dei singoli stati africani, per non renderli schiavi delle trattative con il Club di Parigi e le grandi banche di area e interessi anglosassoni.
Ed infatti le operazioni della nuova banca cinese (ma anche l’Italia vi partecipa) per l’OBOR sono cresciute, in Africa, del 78% nel solo 2016.
Anche qui, tutto inizia in anni lontani: è proprio la Cina, in una fase difficilissima della sua storia e della sua economia, a costruire tra il 1968 e il 1976 la Tan Zam Railway, che unisce lo Zambia con il porto di Dar Es Salaam in Tanzania.
Mao Zedong disse, in quegli anni, a Julius Nyerere, il leader della Tanzania: “per costruire la vostra ferrovia, abbiamo evitato di costruire la nostra”.
Non era carità cristiana, improbabile in un esoterista zen e in un mistico “operativo” taoista come Mao, era un progetto strategico vincente: le “periferie del mondo” contro le “metropoli del mondo”, lo sfruttamento a breve contro la collaborazione economica, il socialismo contro il vecchio spirito di rapina degli occidentali.
Gli FDI, i Foreign Direct Investments cinesi nel Continente Nero sono aumentati fino ad oggi del 40% in dieci anni, ma i dati sono probabilmente più piccoli di quanto non accada nella realtà.
Oltre 10.000 imprese piccole e medie di Pechino operano in Africa oggi, il 12% della produzione industriale africana è già oggi in mani cinesi.
Mentre gli altri manovrano solo sui prezzi, i cinesi manovrano sul valore, che è dato, ce lo insegna l’economia liberale di Adam Smith, dalla quantità di lavoro incorporato nelle merci.
Per le infrastrutture, le statistiche ci dicono che siamo al 50% del totale delle operazioni africane del settore sempre in mano cinese, con un 20% di ricavi dichiarati, in media.
Non è poi vero che la Cina colonizzi il mercato africano con i suoi lavoratori, perché l’89% della manodopera impiegata dalle imprese provenienti dall’universo han è locale.
Ed è trattata bene, naturalmente.
La simbiosi economica (e politica) più ampia si ha poi, in Africa, tra la Cina, l’Etiopia e il Sud Africa, dove i due paesi del continente nero sono integrati non solo nel commercio bilaterale, ma anche nella relazione tra essi e alcune regioni dell’immenso sistema economico cinese.
Ad un secondo livello di integrazione con la catena del valore di Pechino troviamo Kenya, Nigeria e Tanzania.
Angola e Zambia ricevono invece, da parte della Cina, un interesse specifico e fortemente settoriale.
Per l’Angola, il governo locale si è limitato a fornire alla Cina petrolio in cambio di investimenti infrastrutturali, mentre in Zambia gli investimenti di Pechino sono indifferenziati e, in gran parte, forniti da piccole e medie imprese.
Un dato, anche qui, rilevante, ci indica che l’investimento di capitali cinesi in Africa è aumentato, fino al giugno 2016, di ben il 515% rispetto al dato dell’anno precedente.
Il Fondo Monetario Internazionale, in uno dei suoi ultimi documenti dedicati all’interscambio tra Cina e continente africano, ci dice che, in venti anni, gli scambi economici tra le due entità geopolitiche sono aumentati di quaranta volte.
Se, poi, negli ultimi anni, i mercati delle materie prime sono diventati più ampi e meno regolamentati, questo ha moltiplicato per cinque il valore delle esportazioni di raw material dall’Africa ai Paesi del “Primo Mondo”, mentre la stessa diversificazione tra i compratori ha ridotto la volatilità delle esportazioni africane.
E questo coincide con il modello economico cinese attuale: tra il 2010 e il 2014, per esempio, la Cina ha assorbito il 40% della domanda mondiale di metalli, il 10% della domanda globale di petrolio, il 20% della produzione agricola per il cibo, il 20% ancora di consumi primari di energia, oltre a quelli derivanti dagli idrocarburi.
E’ questa una mossa economica di tipo win win: l’accumulo di metalli e di prodotti energetici in Cina ha seguito una ascesa dei loro prezzi.
Quelli dei metalli di base e dei prodotti energetici sono saliti del 160%, i metalli preziosi sono aumentati, di prezzo, del 300%, i beni agricoli del 100%.
Una situazione che ricorda la banca rinascimentale fiorentina, dove si accumulavano indifferentemente sia beni reali che titoli e monete.
Ma, d’altra parte, i paesi africani esportatori di petrolio stanno perdendo tutti, come peraltro accade anche per altri Paesi OPEC, grandi quote di mercato, si pensi che solo in Angola la caduta dei prezzi petroliferi ha letteralmente dimezzato le entrate statali in pochissimo tempo.
Quindi, se la Cina importa di meno, e cresce di meno, anche sulla base di una specifica scelta politica di Xi Jinping, occorre un riequilibrio nel sistema bilaterale tra Pechino e il Continente Nero che è basato, soprattutto, sull’aumento degli investimenti per le infrastrutture, che poi varranno anche per la OBOR; e soprattutto per l’aggiornamento agricolo.
E, comunque, la Cina non lascia mai sola l’Africa.
Dal 2000 al 2015, Pechino ha investito nel Continente Nero 94,4 miliardi di Usd, e ben 30 solo in Kenya.
La componente africana dell’OBOR sarà certamente composta da Kenya, Sud Sudan, Uganda, Gibuti, dove Pechino sta già aprendo una base militare a pochi chilometri da Camp Lemonnier, la struttura militare Usa, e da quella, ancora in completamento, delle FF.AA. saudite, poi ancora Etiopia, Tanzania e infine Angola.
Questa sarà la linea OBOR dall’Oceano Atlantico a quello Indiano.
L’altro ramo marittimo della Belt and Road Initiative va da Mombasa a tutte le coste somale, proprio nel punto in cui il 50% di tutte le importazioni petrolifere della Cina attraversa gli stretti di Bab el Mandeb, sempre davanti alla più grande base Usa in Africa, il già citato Camp Lemonnier.
Lo scontro tra Usa e Cina, in Africa, si delinea quindi, e sarà uno scontro pesante e probabilmente violento, tra l’AFRICOM statunitense, che si concentra sullo hearthland subsahariano centrale e le linee commerciali che vanno da lì verso l’Oceano Indiano, e la presenza cinese, che si muove all’esterno dell’area centrale africana.
L’America del Nord vuole soprattutto il Congo, dove si trova il 90% del cobalto mondiale, e ci sono segnali che Washington si stia già muovendo contro il governo di Laurent Kabila, che ha subito una svalutazione della propria moneta del 50% fin dall’inizio del 2017.
Gli Usa puntano infatti su Moise Katumbi, già governatore del Katanga, soprattutto per bloccare la Cina ma, se sarà terminato il collegamento OBOR tra Oceano Indiano e Atlantico, ciò significa che il Congo sarà inevitabilmente tagliato in due parti.
Pechino bypasserà comunque il centro del Congo con due linee, a nord e a sud, e la ormai pluridecennale destabilizzazione Usa di quel Paese non potrà continuare a lungo.
La Cina, in ogni caso, non vuole perdere nemmeno un centimetro quadrato di influenza in Africa.
E’ ormai questo il suo più grande progetto geostrategico globale a lungo termine.
Nel 2015, l’interscambio tra Cina ed Africa ammontava a 188 miliardi di Usd, più del triplo dell’India, il secondo partner commerciale del continente nero.
Mentre gli occidentali vedono solo il fenotipo, l’emigrazione di massa, di cui peraltro non conoscono le radici e le motivazioni reali, la Cina crea una rete di imprese e commerci tali da modificare radicalmente tutta l’economia africana, mentre i poveri gattini ciechi europei parlano di “aiutarli a casa loro” o di investire nella pelosa carità locale, con un tasso di corruzione che i cinesi sanno bene essere almeno del 90%.
Un mercato immane che sarà solo cinese, quello africano, produrrà cinese con i costi di produzione più bassi del mondo, venderà cinese all’occidente con le materie prime saldamente in mano di Pechino.
Complimenti ai programmatori economici e strategici europei e occidentali.
Mentre noi ci balocchiamo con la strategia indiretta dell’immigrazione forzata, la Cina utilizza al meglio l’Africa, in un contesto bilaterale di mutua collaborazione e di pari utilità.
Ancora complimenti a chi non ha saputo sfruttare la complessa evoluzione postcoloniale africana e ha favorito il doppio errore degli occidentali, l’eccesso di aiuto improduttivo e il ritorno di pratiche neocoloniali, vuoi per la gestione dei debiti ai Paesi in crisi vuoi, ancora, per le pratiche commerciali predatorie.