Capodimonte e Palazzo Reale, una collaborazione perfetta. O quasi

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Metti che due direttori di Museo decidano di collaborare. Poni che i due Musei siano state residenza di sovrani, e che la collaborazione tra Epifani e Bellenger, i due direttori, appunto, si esprima con una mostra che ha per titolo “Dialoghi intorno a Caravaggio”. Cosa volere di più, si sospirava maliziosamente in un antica pubblicità.

La mostra si articola su due binari: uno per uno, si sa, non fa male a nessuno. Il primo, curato dal Palazzo Reale espone sette dipinti caravaggeschi acquistati nel 1802 a Roma da Domenico Venuti per Ferdinando IV di Borbone. Il secondo,  curato da Bellenger  propone «un confronto sulla rappresentazione del tema della Flagellazione di Cristo e dell’Ecce homo da parte di diversi artisti tra il XVI e il XVII secolo». Finale con fuoco d’artificio: la grande tela di Caravaggio. Nu’ babà direbbero a Napoli questa collaborazione tra Museo di Capodimonte e Palazzo Reale, che ora dialogano. Wow e ari wow.  La grande opera, per tre mesi ospitata da Palazzo Reale, è esposta alla fine di una piccola esposizione di opere, alcune delle quali dalla travagliata attribuzione, di autori che comunque dall’opera e dalla tecnica di Caravaggio furono influenzati.  C’è quel San Giovanni Battista dapprima attribuito a Bartolomeo Manfredi ,poi ricondotto a Caravaggio, e poi di recente di nuovo discusso come opera del Manfredi. Il tema delle attribuzioni è molto accattivante. Può stimolare il visitatore a mettere in campo tutta a propria curiosità, la voglia di conoscere, lo spirito d’osservazione e  investigativo. Le dodici asettiche righe della didascalia informativa non possono però suscitare in lui atro che una passiva presa d’atto. Il San Giovanni Evangelista, racconta la didascalia, fu prima attribuito al Domenichino e poi riattribuito al Grammatica. Infatti. Di presa d’atto in constatazione passiva il visitatore, non specialista della materia, legge, guarda, passa e va.  Qualche semplice informazione visiva, viviamo nell’era della tecnologia, perdinci ed anche perbacco, sulle affinità le differenze e i particolari che hanno giustificato il sovrapporsi delle attribuzioni sarebbero state coerenti con la funzione dell’istituzione Museo dettata da ICOM: ”il museo è un istituzione che offre esperienze diversificate per educazione, piacere, riflessione e condivisione di conoscenze“.

L’informazione stringata non è contemplata. E’ invece stigmatizzata la funzione del museo quale propulsore di esperienze. In un antico film di classica comicità, la spalla prediletta del grande attore napoletano avrebbe declamato: “… e ho detto tutto.”. Finalmente l’imponente e tanto atteso dipinto migrato da Capodimonte a Piazza del  Plebiscito per il famoso dialogo. La sala n. 78,  in cui abitualmente l’opera è esposta a Capodimonte, offre un colpo d’occhio al visitatore che vede emergere l’opera dal buio di un corridoio. Le luci sono sistemate per valorizzare ed esaltare quelle create dall’autore nel quadro stesso e il colpo d’emozione, prima d’ogni altro sentire, è assicurato. A Palazzo Reale è tutto un po’ in penombra, senza colpi di scena, luci ed ombre. Certamente il visitatore non corre il rischio di incorrere in quella famosa sintomatologia psicofisica di fronte a grandi opere in spazi limitati conosciuta come la sindrome di Stendhal. Nessun richiamo alle più evidenti caratteristiche del dipinto, alla fisicità del Cristo o alla tempistica della scena rappresentata. Trasmettere al visitatore il significato della tempistica scelta dall’artista che in un momento palesemente precedente la flagellazione dipinge sulla sua testa la corona di spine, che secondo le scritture gli venne posta sul capo dopo le frustate, avrebbe potuto instillare il desiderio di un approfondimento che avrebbe poi giustificato la connessione con l’Ecce Homo e il Cristo alla Colonna, esposti  col famoso fine del dialogo tra opere. 

Il dialogo. Pilastro portante della retorica espositiva, mai come n questo caso avrebbe potuto svincolarsi dallo stereotipo che si serve di questa definizione spesso per giustificare l’improbabile accostamento di opere ed artisti che nulla hanno a che fare tra loro. In questo caso le opere sono tutte collegate e avvicinarle fisicamente mostrandole nello stesso luogo è un idea semplicemente geniale. Orazio, quello delle Satire  e non il  cavallo amico di Clarabella, sentenziava però : est modus in rebus. Infatti realizzare una mostra congiunta tra due istituzioni museali, implica l’elevazione alla seconda potenza dell’impegno.  Non solo lo sforzo del trasporto da un punto all’altro della città, dunque, esponendo ed affiancando capolavori, ma quello più impegnativo della creazione di motivi d’emozione e coinvolgimento del visitatore. Est modus, I latini hanno sempre ragione.