Caccia al valore – Democrazia finanziaria

110

È notizia recente la condanna dell’agenzia di rating Standard & Poor’s al pagamento di 1,5 miliardi di dollari in seguito alla richiesta di patteggiamento dall’accusa, formulata dal governo statunitense, di aver fuorviato gli investitori È notizia recente la condanna dell’agenzia di rating Standard & Poor’s al pagamento di 1,5 miliardi di dollari in seguito alla richiesta di patteggiamento dall’accusa, formulata dal governo statunitense, di aver fuorviato gli investitori prima della crisi finanziaria del 2008 assegnando rating (giudizi sul merito di credito) massimi a obbligazioni garantite da mutui residenziali alla vigilia del collasso del mercato mobiliare, contribuendo di fatto ad alimentare la peggiore crisi dalla grande depressione degli anni trenta. Lo scorso 5 dicembre Standard & Poor’s ha declassato per l’ennesima volta negli ultimi anni il rating del debito pubblico italiano portandolo a un gradino dal livello spazzatura (BBB-) e motivando tale giudizio con una serie di elementi del tutto contraddittori. Da un lato, infatti, l’agenzia ha sottolineato che “un forte aumento del debito, accompagnato da una crescita perennemente debole e da una bassa competitività non è compatibile con un rating BBB”; dall’altro gli analisti hanno tuttavia riconosciuto lo sforzo del nostro governo sul fronte delle riforme sottolineando che “il premier Renzi ha fatto passi avanti con il Jobs Act”. Lo stile dell’agenzia è sempre lo stesso: si spara a zero contro il nostro Paese ma allo stesso tempo, qualora il giudizio dovesse rivelarsi infondato, si ipotizza uno scenario alternativo positivo che possa di fatto deresponsabilizzare chi, con i propri giudizi, condiziona gli investimenti di milioni di risparmiatori. Come nel caso dei mutui subprime americani, gli scenari prospettati dalle agenzie di rating sul debito pubblico italiano sono stati clamorosamente smentiti dai fatti: dal primo declassamento del luglio 2012 ad oggi, i titoli di Stato italiani con scadenza decennale hanno realizzato una performance superiore al 50% penalizzando in modo drammatico quegli investitori che, nel 2012, hanno venduto con forti perdite i suddetti titoli proprio a causa di quei giudizi che hanno causato una drammatica ondata speculativa di cui il nostro Paese ne è stato l’epicentro. La Procura di Trani, nel mese di novembre 2012, ha rinviato a giudizio nove analisti delle agenzie di rating Standard & Poor’s e Fitch con l’accusa di avere manipolato il mercato obbligazionario tra gli anni 2011 e 2012 “ponendo in essere una serie di artifici tanto nell’elaborazione, quanto nella diffusione dei rating sul debito sovrano italiano concretamente idonei a provocare una destabilizzazione dell’immagine, del prestigio e dell’affidamento creditizio dell’Italia sui mercati finanziari, causando una sensibile alterazione del valore dei titoli di Stato italiani e, segnatamente un loro forte deprezzamento”. I danni complessivi desumibili dalla presunta condotta illecita di Standard & Poor’s e Fitch sono stati quantificati in 120 miliardi di euro. La prossima udienza è prevista il prossimo 5 marzo e il governo italiano, su indicazione del ministero dell’economia, ha deciso di non costituirsi parte civile ritenendo che qualora sia dimostrato un danno per lo Stato italiano, esso procederà autonomamente con una causa civile nei confronti delle suddette agenzie. La decisione ha suscitato non poche polemiche, in quanto si è paragonato il diverso atteggiamento del governo statunitense rispetto a quello italiano a tutela del pubblico interesse. Personalmente dissento da queste opinioni, sottolineando al contrario il coraggio che il nostro governo ha recentemente mostrato, tutelando la collettività dei risparmiatori, con il decreto che dopo venti anni sancisce la riforma dello statuto delle prime dieci banche popolari italiane imponendone la trasformazione in società per azioni, superando di fatto il voto capitario per il quale ogni socio è titolare di un singolo voto indipendentemente dal numero delle azioni possedute o rappresentate. Tale provvedimento rappresenta un atto di forte rottura nei confronti del passato e, allo stesso tempo, un atto di giustizia contro le lobby politiche che hanno utilizzato negli ultimi decenni il modello del voto capitario per raccogliere consenso elettorale a discapito della redditività degli istituti e, di conseguenza, a danno della collettività. Questi piccoli ma importanti segnali di “democrazia finanziaria”, unitamente a un clima di ritrovato ottimismo che si respira ultimamente nel nostro Paese, rappresentano un ottimo auspicio affinché il 2015 possa finalmente favorire una decisa inversione del ciclo economico italiano dopo i peggiori sette anni dal dopoguerra.