“Briganti”: i “cafoni” nel Sud dei Gattopardi

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Davvero interessante la ricostruzione storica del Sud post-unitario di Gigi di Fiore nell’ultimo libro “Briganti” (Utet). Il volume non è un trattato sul brigantaggio, bensì un insieme di storie documentate, raccontate in forma narrativa, attingendo a più fonti. Una sorta di controstoria della guerra contadina in un Sud umiliato e offeso, contraddistinto dai Gattopardi, ossia da una marea di compromessi e comportamenti ambigui della classe dirigente meridionale che si barcamenava tra doppi e tripli giochi di prestigio. Questi racconti carpiscono l’interesse del lettore perché fanno parte dell’identità del Mezzogiorno, fili del passato che si legano al presente e che consentono una lettura più critica e profonda delle difficoltà e delle piaghe che vive oggi il Sud.

Carlo Levi, pur essendo piemontese, quindi un erede dei vincitori del Risorgimento, definì il brigantaggio la  <<difesa della libertà e della vita di contadini senza ragione e senza speranza contro lo Stato e contro tutti gli Stati>>.  In realtà, per la Destra storica gli spietati briganti erano una fastidiosa “questione criminale” e per i torinesi i cosiddetti “cafoni”, disperati dalle mani callose e il volto scavato, erano un popolo sconosciuto. Si può dire che solo il 2% degli italiani di allora aveva partecipato da protagonista e in maniera attiva alla “rivoluzione” del Risorgimento. Questo fu detto il “popolo superiore”, mentre Benedetto Croce, con tono dolente, parlò di popolazione napoletana disposta all’indifferenza rispetto all’impresa garibaldina. Una sorta di “rivoluzione passiva” che poi fece sì che i contadini del Mezzogiorno, unificato al resto della penisola, rimanessero esclusi, emarginati, estranei, in una parola i “senza terra” nonostante le promesse dei garibaldini. I “cafoni” del Sud erano abilissimi a far diventare fertile quelle terre spaccandosi la schiena ogni santo giorno. “Buttavano il sangue con sacrifici senza futuro, senza certezze per i figli”. Di certo un’inquietudine esistenziale per nulla paragonabile alla condizione d’incertezza della società liquida contemporanea in quanto si restava ancorati ai valori della terra, alle Madonne nere degli altarini. Le abilità per la vita (life skills), che oggigiorno scarseggiano nei giovani nativi digitali, erano allora parte integrante del patrimonio di quell’umanità sofferente in perenne attesa di riscatto sociale cui i garibaldini avevano dispensato solo sogni.

In tale ottica Antonio Gramsci interpretò le vicende del Risorgimento e l’unificazione italiana come una <<rivoluzione borghese>> che solo in misura molto limitata era riuscita a mettere le grandi masse popolari a contatto con lo Stato.

Per Carlo Levi con il brigantaggio la civiltà contadina aveva difeso la propria natura contro una civiltà straniera che cercava di assoggettarla e i contadini vedevano nei briganti i loro eroi. Infatti, la repressione affidata all’esercito e ai carabinieri dovette fare i conti con ambienti ostili. Si ripeteva un antico conflitto i “cafoni” contro i “galantuomini” latifondisti: la terra era rimasta nelle mani di pochi nonostante Ferdinando IV di Borbone avesse tentato di affrontare il problema. Durante il regno di Gioacchino Murat, con la legge di abolizione dei feudi, era stato possibile acquistare le terre demaniali ma risultava troppo oneroso per chi volesse comprarle e i poveri cristi che cercavano di farlo si rovinavano, indebitandosi con gli usurai, perciò le terre erano finite in mano ai ricchi. Con l’arrivo dei garibaldini prima e dei Piemontesi poi “Tutto era destinato a cambiare per restare come prima”. Conseguenza di questo immobilismo Gattopardiano fu la rivolta contadina sostenuta da ex-militari e comitati borbonici.

Bettino Ricasoli parlò all’inizio di <<piaghe delle provincie napoletane>>, ma in realtà si trattò di guerra civile. I briganti furono chiamati criminali, gente che si metteva contro la civiltà e il progresso portati dal neonato Regno d’Italia. Di contro, i capi delle bande erano convinti che il re napoletano in esilio a Roma potesse aiutarli contro il re straniero Vittorio Emanuele II, amico dei “galantuomini”. In accordo con tale ottica è oggi diffusa l’idea che i contadini briganti furono in realtà solo dei ribelli contro uno stato calato dall’alto. L’autore Gigi di Fiore ricorda che tale interpretazione fa parte ormai del patrimonio culturale condiviso al punto tale che Eugenio Bennato, appassionato di storia del brigantaggio, è stato autore del pezzo “Brigante se more” : un vero e proprio inno del Sud resistente, dei briganti e delle brigantesse scritto insieme al canto degli scugnizzi delle Quattro giornate di Napoli. Di certo, in quei contadini non esisteva né poteva esserci coscienza di classe, concetto politico definito solo qualche anno dopo dai socialisti prima e dai comunisti poi.

In sostanza <<per cinque anni i piemontesi agirono al Sud con mentalità precoloniale>> e questa specie di guerra civile tra italiani si protrasse fino al 1866.  Una tremenda guerra civile che metteva in conto anche le teste mozzate degli uccisi esposte a futuro monito. Teste recise dal corpo per comodità di trasporto, anche se a volte era l’intero cadavere a essere lasciato dai militari per più giorni senza sepoltura per confermare l’uccisione di chi nell’immaginario della sua gente era diventato un eroe invincibile. Tra i briganti: Luigi Alonzi, detto Chiavone, Carmine Crocco, Cosimo Giordano di Cerreto Sannita.

Il brigantaggio fu anche il primo e determinante banco di prova delle narrazioni infarciti di pregiudizi, che gli italiani del Nord costruirono sugli italiani del Sud. Ne furono strumento le fotografie propagandistiche scattate dopo le azioni militari. Evoca torture e abusi sessuali la perversa successione di immagini di Michelina De Cesare, donna del capobrigante Francesco Guerra: mostrata a seno nudo con il volto tumefatto dalle percosse. La fotografia fu utilizzata come strumento di narrazione popolare. Di contro all’immediatezza dello scatto, proliferarono le ricercate teorie antropologiche sulla razza meridionale predestinata per eredità genetica alla violenza. Il medico piemontese Cesare Lombroso avviò uno studio sui meridionali approfondendo le <<cause delle devianze>> che portavano al brigantaggio: la pigrizia eccessiva, l’amore per le orge, la brama irresistibile per il male in sé, l’insensibilità al dolore. Lo studio dei crani lo portò ad illuminare il problema della natura criminale ed ad elaborare le teorie sulla “razza meridionale maledetta”. Era la natura ad aver  fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari. Il Mezzogiorno apparve a tutti subito come la palla di piombo che avrebbe impedito più rapidi progressi allo sviluppo civile d’Italia.

Dopo oltre 150 anni ancora oggi si avverte il pregiudizio antimeridionale del Paese nelle mille diatribe tra le forze politiche e, in particolare, nel leghismo forcaiolo del Nord che spinge per rompere l’unità della nazione e la visione solidaristica ed unitaria della Costituzione repubblicana.