Borghi rurali, rivitalizziamoli per conservare viva la nozione di essere umano e del suo spazio

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(da wikipedia)

Il Recovery Plan è la star del primo semestre del 2021. Un prestito sul quale i pareri non hanno mezze misure: o si accetta o lo si respinge. Le discordanti opinioni della gente comune sono, in verità, solo un mero esercizio intellettuale perché le scelte in merito sono ovvio appannaggio delle altissime sfere del governo nazionale. L’aspetto positivo del tutto è che ogni signor chissachidanonsisadove, senza responsabilità alcuna, può sbizzarrirsi e discettarne con la medesima competenza specialistica con la quale sentenzia su partite di calcio, innovazione tecnologica, la rava, la fava, cip e ciop, storia di tre porcellini. Amen, la libertà è magnifica anche per questo e benvenuta sempre la possibilità di esprimersi. Il proclama di un governante che denuntiat nobis di aver richiesto tanti soldi al Recovery Fund per l’ambiente, in quanto natura plasmata dall’uomo, è una rivelazione fulminante. Natura plasmata. Il dizionario Treccani spiega: Plasmare è modellare una materia qualsiasi in modo da farle assumere la forma desiderata. Ehm. Ominidi del paleolitico medio, capanne fatte di rovi, buchi nella roccia, valà a questo punto ce lo consentiamo, siepi “ammaestrate” plasmate, appunto, nelle forme più strane dalle forbici dei giardinieri, argille sagomate in vasellame e tanto altro. Plasmare, appunto. Colpetto di tosse. Deliziosa abitudine, vezzo tutto nostrano, la reinterpretazione dei significati.
Il Fai, il fondo per l’ambiente Italiano, che ricalca all’italiana la traccia del National Trust inglese, suggerisce con la fermezza di chi abitualmente tratta l’articolo: l’ambiente è costituito dai luoghi nei quali l’uomo vive si sviluppa e opera. Non una natura plasmata cioè modellata, foggiata sagomata dall’uomo ma la natura, vissuta dall’uomo, che non la adatta ma ad essa si adegua.
II borghi rurali sono oggi di gran moda. E sono un argomento trasversale a tutti i partiti politici. Da un lato sono amati perché rappresentano la conservazione delle radici, dell’identità di un popolo, rappresentano la storia della capacità di realizzazione delle condizioni più favorevoli alla vita e alle attività produttive. Sono considerati irrinunciabili da altri perché possono rappresentare i luoghi per insediare fasce più o meno nuove di popolazione che in qualche modo deve essere sistemata per diventare produttiva e quindi sono da considerarsi il luogo dove fare incrociare la tradizione legata al territorio con persone nuove che potranno mettere le radici per una storia personale diversa. Abbandonando Heidi, Remi, le pecorelle che fanno ciao ed anche i balconcini fioriti di alcuni incantevoli borghi italiani, più prosaicamente, pallottoliere alla mano, immaginiamo quanto costi riportare anche uno solo di questi borghi abbandonati alla vita, ricostruendo anche schemi che necessitano di un gestione sociale, tecnica, amministrativa, politica e quindi molto, molto costosa. C’è in gioco anche una terza via, decisamente più complessa e meno fantastica di quanto si possa pensare. L‘Ocse dal 2012, insieme all’Italia sta cercando di recuperare L’Aquila facendone un laboratorio vivente, così che «tutti gli spazi e i luoghi nuovamente progettati e ricostruiti diventerebbero delle vetrine volte a dimostrare l’applicazione inequivocabile di queste innovazioni, e, in quanto tali, diventerebbero parte integrante dell’offerta turistica, parallelamente ai beni ambientali, culturali e storici già esistenti».
La “città ideale” dove la “gestione sociale” non avverrebbe più per mezzo dei dispositivi “classici” di inclusione-esclusione, e la completa smaterializzazione dello spazio pubblico: un luogo esiste solo in quanto è provvisto di coordinate geografiche e di un’identità anagrafica digitale. – Un dubbio feroce m’assale la mente – cinguettava allo Zecchino d’oro un pargolo dalla voce potente. Il recupero di alcuni borghi cammina su ciglio di un burrone. Occorrono chiarimenti ed una linea d’azione chiara e particolareggiata.
A fronte di un generico enunciato, quasi uno spot senza ulteriori specifiche, immaginare, ragionare, dedurre è più che lecito, indubbiamente è obbligatorio. Augurarsi che il nostro paesaggio rimanga sempre il più bello prezioso e affascinante da vivere è altrettanto legittimo. Molto meno ispirata a scenari che rimandano al premiatissimo “Blade Runner, potrebbe essere una quarta ipotesi: la casa di John Fortin a Southampton, costruita intorno al 1290 da questo mercante di vini come abitazione della sua famiglia e sede commerciale della sua ditta, è diventata, grazie al lavoro di un team di medievalisti, la residenza delle guide che ogni giorno conducono i turisti a visitare la proprietà ed il territorio circostante il borgo di cui è parte, mostrando attività ed usi dell’”epoca Fortin”. Gli Inglesi hanno inventato il divorzio, la rivoluzione industriale, la minigonna, i Beatles, la city e l’interpretazione come base per l’autogestione dei beni culturali. Sempre molto avanti rispetto al resto del mondo. Ispirarsi a questi modelli gestionali che non tralasciano l’innovazione ed applicarli ai borghi italiani potrebbe aprire nuovi orizzonti e turistici, lasciando integra la matrice storica, artistica e culturale. L’Italia non è New Orleans dove si sperimenta la disgregazione dello spazio pubblico. i borghi italiani non devono perdere il loro primo connotato di piccoli centri a misura d’uomo. L’Italia non ha alcun bisogno di città fantasma da trasformare in Centri d’Innovazione dove perfino la presenza umana può diventare superflua. Pensiamoci.