L’occhio di Leone , ideato dall’artista Giuseppe Leone, è un osservatorio sull’arte visiva che, attraverso gli scritti di critici ed operatori culturali, vuole offrire una lettura di quel che accade nel mondo dell’arte avanzando proposte e svolgendo indagini e analisi di rilievo nazionale e internazionale.
di Ilaria Sabatino
Il 22 novembre 1928 all’Opèra Garnier di Parigi andò in scena Bolero, la musica per Balletto che Maurice Ravel compose per Ida Rubinstein, celebre ballerina della Belle Époque. Da quel momento la musica di Bolero si accompagnò a varie forme d’arte, anche nel cinema con un film del 1934 intitolato Bolero e uno del 1981 il cui titolo originale è Les uns et les autres. Per non dimenticare la scenografica interpretazione del ballerino Jorge Donn del 1982, fino a giungere ad oggi, quasi a 100 anni dalla sua nascita, nella personale “Bolero” dell’artista Luigi Grossi, a cura di Mimma Sardella con Bruno Aymone e Carmine Aymone.
L’artista fa sua la musica di Bolero trasferisce le note, sotto forma di segni, su cartoncini lucidi e materializza le sette note, realizzando delle sculture in argento. La curatrice, Mimma Sardella, ci parla di come sia nata questa mostra. “Questa mostra – dice – nasce in modo straordinario, legata al tempo che stiamo vivendo, perché Luigi Grossi è stato ispirato non solo dalla musica di Bolero, ma da questo tempo dove tutto è mutevole. Sentendo la musica ha cominciato a mettere il pennello su carta e a fare questi dipinti, ma ci ha lavorato molto, non è stata un’operazione simbolicamente dettata in un tempo marginale, ma molto importante e molto espressiva. Quest’anno è stato quello dove ha recuperato più forze su questo elemento e quindi ha deciso che era il momento di farla conoscere, attraverso non solo le opere, ma anche con una performance, in cui, come un direttore d’orchestra, dipinge seguendo la musica”.
“Quando abbiamo deciso di fare questa mostra – continua – c’erano due caratteristiche forti L’opera velata, mostra fatta ad Avellino, che è un operazione molto stretta perché essa è qualcosa che non costruisce ombre, come i pittori del ‘400 insegnano, in particolare gli olandesi, ed invece affronta la profondità colore su colore attraverso la velatura. Quindi tali opere, mi hanno dato l’impressione di seguire lo stesso tema di Bolero e in più, Grossi, ha voluto inserire la poetessa Emily Dickinson. Questa poetessa piena di voglia di vivere, pur stando nello stesso posto, conosceva tutto il mondo, tutte le tensioni attuali del suo tempo e la sua dimensione esistenziale fortissima. Si vestì di bianco, per la purezza che dava quest’abito, era poi sollecitata da visioni e si dedicava all’arte, alcune frasi delle sue poesie lo dicono e sono riportate nella sala dove lei è simbolicamente rappresentata da quest’abito bianco su una piattaforma fatta di lingue di fuoco, perché il fuoco dell’arte brucia. Pertanto questa dimensione della mostra è tutta collegata, non c’è nessuna difficoltà nella traiettoria della mostra che è coerente, anche se pare spezzarsi, ma non è così. Tutta collegata in quest’anima che regge e che rappresenta anche il nostro bisogno di venire fuori da questo buio, facciamone musica, poesia, tendiamo ancora verso qualcosa che non muore, che ci fa vivere e che è l’arte”.
“Il suono, flirta da sempre con le arti figurative – ci dice Carmine Aymone e critico musicale – da Salvator Dalì che nel 1955 firmò la copertina dell’album “Lomesome Echo” di Jackie Gleason, ad Andy Warhol che con la sua “Factory” accompagnò i Velvet Undergorund di Lou Reed, dal prisma dei Pink Floyd creato da Storm Thorgerson e dal suo studio “Hipgnosis” che inondò di colori “The Dark Side of The Moon”, ai manifesti psichedelici della Baia di San Francisco di fine anni ‘60, dalla copertina di “Sgt Pepper’s…” dei Beatles, al pittore surrealista tedesco naturalizzato francese Abdul Mati Klarwein che realizzò l’art work del disco “Bitches Brew” di Miles Davis e quello di Santana “Abraxas”, dalle copertine dei dischi degli Yes di Roger Dean a quelle dei Genesis di Paul Whitehead.
Il suono si è sempre unito in qualche modo all’immagine, alla pittura, in un legame strettissimo di mutua dipendenza. Suono e pittura, hanno molti elementi in comune: un musicista utilizza i diversi strumenti musicali per creare la sua opera, come il pittore adopera i colori di una tavolozza per segnare il suo sogno su una tela bianca. Comporre un brano è un procedimento simile a quello che porta alla realizzazione di un’opera figurativa. Suono e pittura danzano insieme”.
L’artista Grossi ci esprime la sua emozione nel aver creato un’opera unita alla musica. “Sono stato affascinato dal maestro che dirigeva l’orchestra di Bolero, dal modo in cui, con le mani indicava il movimento e poi il suono che sarebbe uscito dallo strumento, e mi sono immaginato che quella nota potesse essere visibile. Da ciò è nato in me il muovere le mani per indicare alla tela come poter materializzare quel suono in pittura. Questo mi ha dato una fortissima emozione, a tal punto da decidere di realizzare un’unica mostra, che vedesse come protagoniste la musica e l’arte”.
La musica, l’arte, la poesia nella mostra di Luigi Grossi sono dirette da un’unica mano, che sa raffigurare in esse una forte emozione, soggettiva e astratta, che attraversa tutta la sala e percuote gli animi.
La mostra sarà visibile al Pan, Palazzo delle Arti, fino al 2 novembre 2020.