Ariaferma, uno sguardo sul confine labile tra bene e male

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in foto SIlvio Orlando e Toni Servillo

di Erika Basile

Ariaferma è un film che sedimenta. Restano le cose non dette, quelle accennate o appena suggerite, la forza emotiva dell’interpretazione di Silvio Orlando e Toni Servillo, che si esprime per sottrazione, la fotografia spietata di Luca Bigazzi e la colonna sonora di Pasquale Scialò, tra percussioni, musica popolare e sacra. Leonardo Di Costanzo trasporta lo spettatore in un carcere immaginario in dismissione – Mortana – in un tempo e un luogo indefiniti. Nell’attesa del trasferimento, gli ultimi dodici detenuti restano bloccati insieme a tre guardie – Gargiulo, Sanna e Coletti – e una dozzina di agenti. Tutte le attività sono sospese, compresi i colloqui con i familiari. Lo spaccio e la cucina vengono chiusi, una ditta esterna porta il cibo già cotto. L’attesa, il tempo vuoto, la costrizione che accomuna sorveglianti e sorvegliati, l’interruzione di quella ritualità che scandisce il ritmo delle giornate. Un limbo che può costituire la miccia per innescare dinamiche di violenza. Ma non succede nulla. La tensione latente accresce la sensazione claustrofobica degli spazi decadenti, labirintici e desolati, dei muri scrostati, dei corridoi angusti e sporchi su cui la camera indugia, dandone una visione documentaristica. Così come i suoni diegetici delle chiavi che aprono e chiudono le porte di ferro. Quella tensione, che riempie silenzi e sguardi, accompagna un racconto che preferisce frugare all’interno dei pensieri e della coscienza, cogliendone evoluzioni e mutamenti. Ad essere amplificata è la dimensione interiore del conflitto tra l’esercizio di un ruolo, della responsabilità ad esso collegata, e il sentimento di compassione che si esprime in momenti di empatia, pur non mostrando cedimenti morali. Quando Lagioia-Orlando insinua che Gargiulo-Servillo non voglia ammettere di aver avuto gli stessi sentimenti di un detenuto, riceve una risposta ostile e decisa nei toni: “Parliamoci da uomo a uomo: io e te non abbiamo niente in comune. Io la sera quando metto la testa sopra al cuscino sono sereno. Faccio il mio lavoro, mi pagano, ho la coscienza pulita. Non ho mai fatto male a nessuno. Non ho debiti di nessun tipo, con nessuno. E questo mi dà una serenità che tu non conosci. Perciò, io e te in comune non abbiamo niente”. L’avvicinamento costituisce sempre un rischio, perché implica l’ascolto, il mettersi in discussione, e strappa via il velo dell’indifferenza. La sceneggiatura firmata dal regista insieme a Bruno Oliviero e Valia Santella disegna personaggi veri e non stereotipati, che, in una condizione di sospensione, dovuta a circostanze eccezionali, non seguono più il copione dettato dalla funzione che svolgono. È come se progressivamente si spogliassero delle sovrastrutture e apparisse l’umanità nuda. Ariaferma suggerisce interrogativi sul rapporto tra colpa e pena e sulle risposte che vengono date a livello sociale e istituzionale. Ma non solo. Perché le domande che continuano a emergere, dopo aver assistito al film, riguardano il nostro sentire più profondo, il modo in cui preferiamo nascondere il “male”, relegandolo in non-luoghi, come il carcere. Riguardano anche il sottile desiderio di vendetta che, in alcuni casi, può prevalere sul senso di giustizia e induce a pensare, a desiderare di seppellire in mezzo al nulla chi commette crimini, buttando le chiavi, come se questo bastasse a farci sentire più sicuri, a innalzare barriere emotive, dimenticando, spesso, che chi vorremmo far scomparire sono uomini e donne, come noi, con una storia, con fragilità e demoni. Persone. Anche l’ambientazione, idealmente isolata tra le montagne, contribuisce efficacemente a trasferire iconograficamente un’idea di punizione e non di rieducazione. Il carcere di San Sebastiano, chiuso nel 2000, è stato costruito nel 1847, seguendo il criterio architettonico del Panopticon, teorizzato dal giurista e filosofo Jeremy Bentham, che permette un controllo completo degli spazi e una visibilità costante dei detenuti. Per “sorvegliare e punire”, citando Foucault. La torre centrale sotto la cupola consente, infatti, una sorveglianza continua e contemporanea delle celle ma, nella finzione cinematografica, quello stesso luogo si trasforma in zona di detenzione e diventa anche punto di incontro tra mondi diversi. Un set unico, come in un teatro, in cui la scena assume di per sé un valore metaforico e simbolico. Di Costanzo, dopo aver lavorato per anni con attori non professionisti, per lo più cercati negli stessi ambiti che intendeva raccontare, in Ariaferma, per interpretare i personaggi principali dell’ispettore Gaetano Gargiulo e del boss Carmine Lagioia, sceglie Toni Servillo e Silvio Orlando. Magnifici. Si aggiungono Fabrizio Ferracane (Coletti), Roberto De Francesco (Buonocore), Salvatore Striano (Cacace) e Francesca Ventriglia (la direttrice), affiancati da diversi ex detenuti ed ex agenti di custodia. Il confronto tra Lagioia e Gargiulo si svolge sul filo sottilissimo dell’equilibrio tra fiducia e conflitto. Quando i detenuti rifiutano il cibo portato dall’esterno, Lagioia ottiene che si riapra la cucina. Egli stesso, figlio di un ristoratore, si offre volontario come cuoco e, nonostante le riserve di alcuni, Gargiulo decide di assecondarlo, permettendogli di preparare i pasti per tutti, comprese le guardie. L’ispettore, dal momento in cui la direttrice, abbandonando il carcere, gli affida il comando, viene investito di nuove responsabilità, da esecutore si trasforma in decisore e questo cambiamento coinvolge anche il suo punto di vista. Comincia a guardare le cose con occhi diversi, riuscendo a scorgere sfumature che prima non vedeva, in una parabola che si orienta verso il bene. L’anello di congiunzione tra Gargiulo e Lagioia, colui che innesca l’evoluzione del loro rapporto, è rappresentato da Fantaccini (Pietro Giuliano), giovane ma con un pesante carico di esperienze negative, che ora rischia una dura condanna per le conseguenze di uno scippo. Spaventato e insicuro, personifica, con la sua umiltà, la “pietas” cristiana. Le sue azioni sembrano mosse da un bisogno e una volontà di redenzione che, nel corso della narrazione, gli fanno acquisire piena consapevolezza della propria colpa. La maturazione del personaggio avviene attraverso atti di grande umanità, come quando aiuta un anziano pedofilo, che sembra aver perso la testa: si preoccupa per lui e lo lava, in una sorta di espiazione, nonostante abbia commesso il delitto più orribile di tutti e per questo motivo sia tenuto a distanza dagli altri. Il fulcro tematico del film è costituito dalla scena che, durante un blackout, vede riuniti i detenuti e alcune guardie, dodici in tutto, attorno ai tavolini accostati al centro della rotonda, per cenare alla luce delle torce. Tutto il film sembra portare a questo momento, che assume una valenza spirituale. Quando Gargiulo accetta l’invito e si siede accanto a Lagioia, sembra che quel semplice gesto di prendere il piatto possa abbattere il muro della diffidenza e aprire la possibilità di una visione nuova dei rapporti. Si intravede una sorta di pacificazione, seppur fragile, perché ogni piccolo gesto e ogni parola possono metterla in discussione. E così accade: la luce si accende e la favola finisce. Il film si chiude con il detenuto e la guardia che, uno accanto all’altro, rientrano nella prigione dopo aver raccolto, insieme, verdure nell’orto devastato dall’incuria. Durante l’ultimo dialogo, appaiono semplicemente come due uomini, nati nello stesso quartiere, che si raccontano e parlano dei rispettivi padri, il proprietario di una trattoria e di una latteria. Non c’è più nessun senso di sfida, ma una dolente malinconia nelle parole di Lagioia, quando confessa a Gargiulo: “Mi sono sempre vergognato di dire a mio fratello che una delle guardie è il figlio di Oreste il lattaio”. Di Costanzo, nei suoi documentari, ma anche nei precedenti lungometraggi di finzione, L’intervallo e L’intrusa, ha mostrato interesse per le figure di mediazione, che entrano in contatto con i luoghi di frontiera, geografica e culturale, e con la parte più fragile ed emarginata dell’umanità. L’inclusione, la possibilità di riscatto, il difficile equilibrio tra sospetto e accoglienza e il labile confine che separa il bene dal male sono temi ricorrenti nelle sue opere cinematografiche. In questo caso, ha cercato la sua storia visitando diverse strutture carcerarie e dialogando con direttori, psicologi, educatori, oltre che con agenti e detenuti: “l’aria è ferma” ha letto sul muro di una delle celle, a indicare un vuoto e un’angoscia difficilmente immaginabili. “Chiudere a chiave qualcuno in una gabbia – sottolinea il regista – è un atto violento, a cui possono essere date due risposte diverse: ci si può mettere sulla difensiva oppure provare a elaborare possibilità diverse”, come avviene in istituti ispirati a una giustizia riparativa, volta alla rieducazione del condannato. Egli è riuscito a riprodurre drammaturgicamente, in modo poetico e non didascalico, atmosfere e suggestioni, con “un film intimista – dichiara Silvio Orlando – in un luogo in cui non è concessa intimità. L’inespresso diventa più importante di quello che dici. È una cosa che un attore capisce tardi ma, quando lo capisci, è un bel modo di invecchiare”. 

in foto Leonardo Di Costanzo