APE AGEVOLATA, MA DOPO TRENT’ANNI (IN FONDO ANCHE I RICCHI PIANGONO)

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Ore di consultazioni frenetiche e di calcoli infiniti per il governo impegnato a chiudere – come si sa – la partita della manovra finanziaria nel migliore dei modi possibili. Ovvero, in cifre: con la vittoria, tra Roma e Bruxelles, della guerra dello zero virgola per cento a favore della prima. O al più, con un onorevole compromesso (sempre per la prima, ovviamente). La distanza da colmare, infatti, è la differenza fra il 2 per cento di deficit indicato nel Documento di economia e finanza e il 2,4 chiesto alla Commissione.

Nel balletto di cifre cui da qualche anno puntualmente siamo costretti ad assistere, in occasione appunto del varo della ex legge Finanziaria (ora si chiama di Stabilità), ancora alla vigilia, alla manovra mancano 7 miliardi. Bruxelles – si dice – potrebbe chiudere un occhio su uno sforamento del deficit di 3,2 miliardi. La quadra non dovrebbe essere lontana. La partita potrebbe infatti chiudersi infine con il deficit che sale al 2,2%. Ma la conferma l’avremo soltanto stamattina (sabato 15, ndr) a conclusione del Consiglio dei ministri che approverà il documento finale da inviare al Parlamento.

Intanto, al premier Matteo Renzi non pare vero di poter annunciare “urbi et orbi” la fine dell’austerità. Nei giorni che precedono il grande giorno, in particolare di fronte ai sindaci in conclave per il rinnovo dei vertici dell’Associazione nazionale dei comuni, parla di ritorno ai concorsi pubblici, edilizia scolastica fuori del patto di Stabilità, di spese per il recupero delle periferie, sblocco delle spese per investimenti finora bloccate. E ancora di fusioni tra enti (anche se precisa: “Si facciano, ma nessuno può essere obbligato”) o di accorpamento di Equitalia in seno all’Agenzia delle Entrate. Mette, insomma, molta carne sul fuoco, ed indica esattamente una direzione di marcia che non è certamente quella dell’austerità invocata da qualcuno a Bruxelles. Un concetto su cui molto esplicitamente ritorna poi anche in aula, alla Camera, per aggiungere: “Solo in Italia le valutazioni dell’Europa occupano pagine intere di giornali. Gli altri Paesi sono più abituati ad accogliere i suggerimenti e dopo fare come credono senza che si crei uno psicodramma nazionale”. Ma tant’è.

Ad ogni modo, alla vigilia del varo della manovra la quadra, almeno con una parte del sindacato (leggi Uil) sembra essere stata trovata anche sulla spinosa questione delle pensioni. Infatti, potranno accedere all’Ape agevolata i disoccupati, disabili e alcune categorie di lavoratori impegnati in attività faticose purché abbiano un reddito inferiore ai 1.350 euro lordi. Per queste categorie il costo dell’anticipo pensionistico, attraverso un reddito ponte, sarà a carico dello stato. L’Ape (anticipo pensionistico) partirà dal 1 maggio 2017. Per accedervi sarà necessario avere almeno 36 anni di contributi complessivi se si rientra nelle categorie dei lavori gravosi (gli ultimi sei dei quali effettuati nell’attività gravosa) e 30 anni se si è disoccupati, disabili o parenti di primo grado conviventi di disabili per lavoro di cura. Su quest’ultimo punto infatti la Cgil non ci sta. “Il governo Renzi si rimangia la parola: 30 anni di contributi invece di 20 per l’Ape social. Gli antibiotici a Matteo Renzi non fanno effetto”, tweetta Susanna Camusso dopo l’incontro a Palazzo Chigi.

Quello delle pensioni resta un tema caldissimo, peraltro, anche alla luce delle pulci che molti organi di contro-informazione fanno alla casta. E stavolta nel mirino è il presidente emerito Giorgio Napolitano, di cui si ricorda il più che congruo assegno mensile di 50 mila euro. Cifra che non sarà minimamente scalfita, evidentemente, nemmeno dalle polemiche se è vero che il contenuto conclusivo del comma 5 dell’art. 40 (disposizioni finali) della riformata Costituzione, una volta confermata dal voto referendario, recita: “Lo stato e le prerogative dei senatori di diritto e a vita restano regolati secondo le disposizioni già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale”.

Ma non bisogna infierire. In fondo anche i ricchi piangono. Sventurati, questi “poveretti” da un po’ di tempo sono davvero sotto pressione. Lo scorso anno infatti la loro ricchezza è diminuita la modestissima cifra di 300 miliardi di dollari, dopo essere cresciuta – pensate un po’ – di sette volte negli ultimi vent’anni. Complessivamente i super ricchi si sono spartiti 5.100 miliardi – fonte: report di Ubs e Pwc intitolato “Are billionaires feeling the pressure?” – vale a dire, 3,7 miliardi a testa. Inutile aggiungere che si tratti di una cifra in ogni caso stellare per noi comuni mortali, ma che per i signori del denaro – pensate un po’ – rappresentano una perdita del 7,5% in un solo anno.

C’è davvero di che non dormire la notte…