A Palazzo Strozzi la mostra “Angeli caduti”: nessun santino
Firenze, 30 mar. (askanews) – È indubbio che un parte del fascino sia dovuta al nome dell’artista, un nome che evoca la Storia con la maiuscola, il potere dell’arte, una grandezza sconfinata. Evoca anche celebrità, in senso culturale certo, ruvida, scontrosa, ma celebrità. La mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi a Firenze forse arriva al pubblico partendo da qui, dall’aura e dalla possanza del suo protagonista, storicizzato in vita come pochi altri. Ma fermarsi a questo livello sarebbe un errore, perché la mostra, poi, riesce in molti modi a superare il Nome e a lasciare che lo spazio sia interamente occupato dall’arte, dalla forza che anima la figura, paradigmatica quanto volete, di Anselm Kiefer.L’esposizione, curata dal direttore di Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, si intitola “Angeli caduti” e l’ingresso non potrebbe essere più potente: c’è l’enorme ala di un aereo che esce dal dipinto dedicato a Lucifero, il più bello dei ribelli celesti, e questa ala, a chiunque appartenga, è un colpo che ci trascina dentro il senso della storia, dentro la sua e nostra tragedia, dentro una scala di grandezze che sono ulteriori.Poi due grandi opere dorate dedicate a Eliogabalo e il primo dei giganteschi girasoli, che testimoniano il ciclo della vita, ma anche dell’arte. Non servono troppe speculazioni, qui è la pittura a farla da padrona, così tanto da far dimenticare il brutto pavimento della sala, che è illuminata dalla luce dei dipinti, come se fossero una sorta di scenografia per il museo stesso. Ancora una volta l’uso dell’oro è decisivo, perché cita il Trecento, ma lo fa “alla Kiefer”, in modo attualizzato. La scrittura inonda altre sale, sotto forma di segni, indicazioni, tracce che sono macerie di mitologie, come quella di Danae, ma anche di storia dell’arte, e non si può non pensare a Beuys, al suo corpo, ai suoi materiali. La letteratura poi si manifesta ancora, sotto forma di uno specchio borgesiano che crea una voragine nella sala della rocambolesca quadreria sulla dissoluzione, uno specchio che letteralmente fa precipitare in un’altra dimensione e che contiene e assorbe il Tutto. Lasciandoci in fondo la contemplazione del nulla.A questo punto la mostra ha funzionato, ci ha scombussolato e commosso. Ma Galansino ha la brillantezza per giocare ancora con il suo visitatore, consegnandoci un’ultima sala che in un certo senso finge di demolire tutta la mitologia dell’artista che abbiamo costruito fino a quel momento. Tutta la meraviglia che abbiamo accumulato passo dopo passo sembra rimbalzare sopra le superfici piombate delle fotografie di fine anni Sessanta che ritraggono Kiefer vestito con una divisa della Wehrmacht nell’atto di fare il saluto nazista in diversi luoghi d’Europa. Anche sapendo che sono azioni che avevano lo scopo di far riflettere sul tema dell’identità e sulla tragedia, quelle fotografie toccano, smuovono, confondono. E ci dicono che l’arte è importante quando non è un santino o un talismano e neppure una valutazione stratosferica da Christie’s. L’arte è importate se continua (anche) a farci male.