L’Occhio di Leone, ideato dall’artista Giuseppe Leone, è un osservatorio sull’arte visiva che, attraverso gli scritti di critici ed operatori culturali, vuole offrire una lettura di quel che accade nel mondo dell’arte, in Italia e all’estero, avanzando proposte e svolgendo indagini e analisi di rilievo nazionale e internazionale.
di Stefania Trotta
Giovedì 14 novembre è andata in scena, a Nola, l’intima performance sui frammenti di ricordi personali dell’artista Maria D’Anna “La lingua batte dove il dente duole”, con un’attiva partecipazione del pubblico, coinvolto, in maniera diretta e indiretta, nella performance Quando nasce una performance?.
Sono passati diversi decenni dal momento di nascita, di questa forma espressiva. Nata negli anni 60, nel tempo, l’arte performativa ha trovato nuove forme, ma ciò che la rende ancora attuale è proprio la sua natura duttile. Per quanto, infatti, l’artista o performer esegua i movimenti, i gesti, che ha immaginato nella propria mente, li vivrà in maniera effettiva nel momento dell’incontro col pubblico. È ciò che è successo al Museopossibile, all’interno delle ex scuderie del Seminario Vescovile di Nola in occasione della performance “La lingua batte dove il dente duole” di Maria D’Anna a cura di Stefano Taccone.
All’interno dell’ampio ingresso del museo i partecipanti si sono disposti, sotto indicazione del curatore, a cerchio in attesa dell’arrivo dell’artista. Dopo qualche attimo di condivisa curiosità, D’Anna ha fatto il suo ingresso in punta di piedi, con un registratore in mano, si è avvicinata ad un partecipante e ha fatto ascoltare qualcosa, ripetendo lei stessa il messaggio preregistrato. Così è successo diverse volte con altri partecipanti, senza che gli altri presenti potessero ascoltare il contenuto delle registrazioni. Un fatto intimo, una confessione, un ricordo è stato sussurrato come un segreto ad alcuni partecipanti, scelti dall’artista – ci dice – in base al frammento scelto.
Il titolo “La lingua batte dove il dente duole” fa riferimento al potere emotivo della tradizione orale che, oggi, si pensi al largo uso dei messaggi vocali, ha perso l’intensità del suo valore e, forse proprio per questo, è stata, in quest’occasione riproposta in una duplice versione, attraverso una fredda voce registrata e attraverso la calda voce dall’artista, che ripeteva il messaggio.
D’Anna ha creato un clima di indefinita suspense e viscerale curiosità introspettiva che ha coinvolto, in maniera diversa, tutto il gruppo.
A fine performance il curatore e l’artista hanno dilatato la partecipazione, con un momento di condivisione reale e sincero aperto alle suggestioni e ai feedback del pubblico.
L’artista non ha escluso che da questi ulteriori spunti potrebbe nascere una sorta di prosecuzione dell’opera performativa, anche in altre forme.
“L’operazione – scrive nel testo critico Taccone – non si risolve, del resto, nel mero deambulare dell’artista tra gli spettatori e neanche nel suo pronunciare dei contenuti e nella reazione più epidermica dello spettatore. Le emozioni – anche le paure – della performer, così come quelle dei suoi cooperatori – l’imbarazzo, la curiosità o entrambi? – vanno considerati parte integrante dell’opera, evidenziando la realtà di un muoversi invisibile, accanto al più vieto muoversi del visibile ed avanzando un paradigma in cui i confini tra arte e vita vacillano pur non dissolvendosi”.