Adozioni gay: la legge manca ma a prevalere sono i legami

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L’11 maggio 2016 è stato reso definitivo il ddl Cirinnà, tanto famoso quanto discusso negli ultimi mesi. La nuova legge suddivisa in due parti, disciplina: nella prima (sulla quale ci soffermeremo) l’unione civile tra persone di sesso uguale, pertanto le coppie omosessuali, qualificate come “specifiche formazioni sociali”, sono destinatarie di un nuovo istituto di diritto pubblico chiamato “unione civile”; nella seconda disciplina la convivenza di fatto tra due persone, eterosessuali o omosessuali, che non essendo sposate possono stipulare contratti di convivenza per regolare i rapporti patrimoniali intercorrenti tra loro. Alla base della disposizione vi sono gli artt. 2 e 3 della Costituzione, per quanto concerne rispettivamente i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e come facente parte di formazioni sociali e la pari dignità sociale dei cittadini senza distinzioni di sesso. L’unione civile avverrà di fronte ad un ufficiale di stato, alla presenza di due testimoni e verrà registrata nell’archivio dello stato civile. Le parti possono decidere un cognome comune tra i loro. Infine il ddl estende alle coppie omosessuali i diritti previsti dal matrimonio civile. Gli istituti dell’unione civile e del matrimonio intersecano le proprie discipline in molti punti, ma per altri divergono totalmente. Si pensi, facendo capo alla disciplina del matrimonio fra eterosessuali, all’obbligo di usare il cognome dell’uomo come cognome comune, all’obbligatoria attesa di un periodo di separazione da sei mesi a un anno per sciogliere l’unione (per le unioni civili sono sufficienti tre mesi), la possibilità di scioglimento dell’unione nel caso di mancata “consumazione”.

Il tema delle adozioni, in particolare, è divenuto l’obiettivo delle critiche delle opposizioni e la scarsa conoscenza sull’argomento ha provocato la diffusione di equivoci e strumentalizzazioni. Per questo motivo occorre fare chiarezza sul tema, in particolare sulle tanto discusse pratiche della stepchild adoption e della gestazione per altri (o utero in affitto).

La stepchild adoption, che prevede l’adozione del figlio biologico del partner da parte del genitore non biologico, è in vigore in Italia dal 1983. Il tanto discusso articolo 5 del ddl Cirinnà, se non fosse stato eliminato dopo il voto del Senato nel febbraio 2015, sarebbe dovuto intervenire sull’articolo 44 della legge 184 del 1983 che regola in Italia le adozioni, aggiungendo alla parola “coniuge” la frase “o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. La legge Cirinnà quindi, se fosse stata approvata integralmente, non avrebbe introdotto l’adozione per le coppie omosessuali, ma avrebbe semplicemente legittimato un istituto già presente in Italia da decenni per qualsiasi tipo di unione legale.Per quanto concerne la pratica della gestazione per altri, paragonata ad un abominio dagli oppositori, non viene in nessun modo modificata dalla legge Cirinnà, pertanto rimane immutato quanto disposto dall’art. 12 della legge 40: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”. Tale pratica dunque era e rimane illegale in Italia.
In conseguenza dell’eliminazione dell’art.5, quindi, le disposizioni sulle adozioni non si applicano alle unioni civili anche se “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, spettando quindi alla magistratura di decidere di caso in caso sul tema delle adozioni per le coppie omosessuali.

Ad oggi, nonostante la legge manchi, sono diversi e numerosi i casi di stepchild adoption avallati dalle corti di merito sulla base del suddetto richiamo alle “norme vigenti in materia di adozione”. Alla base di queste pronunce, come si legge nei rispettivi testi, vi sarebbe il riferimento alle “adozioni in casi particolari” che consentirebbe l’adozione anche da parte di chi non è un genitore biologico. I giudici hanno infatti applicato il sopraccitato art. 44, comma 1, lett. d) della legge 184 del 1983, che regola per l’appunto l’adozione in casi particolari. Per giustificare tali linee di pensiero, le Corti di merito sottolineano la sussistenza di situazioni di fatto meritevoli di tutela e l’esistenza di forti legami.

I giudici vanno oltre e richiamano nelle loro motivazioni anche i principi affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (e ribaditi dalla Cassazione nel 2015), la quale fornisce “una definizione del concetto di vita familiare fondamentalmente ancorata ai fatti” considerando meritevoli di tutela non le condizioni giuridiche ma “i rapporti, i legami, la convivenza”. La definizione di vita familiare, come si legge, “non è subordinata all’accertamento di un determinato status giuridico quanto piuttosto all’effettività dei legami”, e nessuna importanza può avere “la circostanza che il nucleo familiare sia formato da una unione affettiva eterosessuale ovvero tra le persone dello stesso sesso”.

Il comportamento eccessivo, oltre i limiti posti dalla legge, delle corti di merito, ha, da una parte confermato le preoccupazioni di coloro che avevano votato “no” alle unioni civili, e che cioè la legge pur non prevedendo la stepchild adoption, non è altro che un grimaldello per superare la stessa; dall’altra, fatto riemergere il tema dello sconfinamento del giudice che opera al di là della legge.