“Con gli occhi dei greci”: oltre l’orizzonte

 

Le lingue morte per tanti potrebbero ormai riposare in pace e così i classici di filosofia antica, come errori di un pensiero umano, acerbo  e ignaro di tecnologia e informatica. Che dire? Suggerirei un capovolgimento d’orizzonte e, ritrovato lo zenit, imparare a guardare il mondo “Con gli occhi dei greci” (Carocci). È ovvio che Mauro Bonazzi, giornalista, docente di filosofia antica presso l’Università degli Studi di Milano, con tale titolo del suo ultimo saggio ha inteso far riferimento all’avanzatissima sapienza della Grecia antica, ove poeti e filosofi, a partire dal VI-V secolo, affrontarono temi dell’esistenza ancora attualissimi: amore, felicità, giustizia, amicizia. L’autore è d’accordo con Platone che le questioni importanti della filosofia, come dell’esistenza, sono in realtà pochissime e ciò conferma che, oggi come ieri, è difficile apprendere il mestiere di vivere, ossia vivere bene con significanza. Di fronte ai nostri tempi tormentati Bonazzi ricorda che è un’illusione della memoria l’idea classicheggiante di una Grecia apollinea, marmorea, olimpica; in realtà esistevano tanti punti di vista e tanti modi diversi , a volte folli, a volte geniali di affrontare i problemi esistenziali. Ed anche allora ci si domandava fino a che punto la conoscenza potesse giocare un ruolo nel dare un senso all’esistere umano.

Per riagganciarci ai tempi moderni si può affermare che la Grecia dei poeti, quella di Omero, caratterizzata da una visione disincantata e disillusa rispetto alla possibilità di trovare un senso alle cose e all’esperienza umana,  è stata molto amata da Friedrich Nietzsche, il filosofo tragico che nell’eterno ritorno ha cercato disperatamente una chiave di lettura della realtà.  La Grecia dei filosofi, quella di Socrate e Platone, ha avuto tra gli estimatori Joseph Ratzinger perché contraddistinta da un’idea di fondo: trovare un ordine e un senso dietro l’apparente caoticità dell’essere. Nel presente non si tratta di prendere posizione in merito ad una questione antica,  ma di riconoscere le domande, chiarirne il senso a se stessi, come avrebbe suggerito Aristotele, e con metodo nuovo affrontare la complessità che ci circonda. Allora ci domanderemo se c’è ancora spazio nel nostro mondo per l’anima o tutto può essere ricondotto ai costituenti naturali. Tale quesito ci guiderà nella ricerca della felicità, nella costruzione di una vita felice che, come insegnava Epicuro, non può ridursi mai al godimento intenso di un attimo. Ci si può chiedere poi se l’amore platonico non sia stato un modo originale per affrontare il tema del desiderio  più che l’esaltazione di un sentimento astratto. La giustizia, infine, va intesa come il risultato delle decisioni umane o qualcosa di assoluto e superiore a cui dobbiamo uniformare le nostre decisioni? Bisogna far riferimento ad Antigone o a Creonte? Barack Obama in un certo senso potrebbe rappresentare una versione buona di Creonte che si contrappone a forme esasperate di fondamentalismo. Oggi senz’altro sarebbe più corretto parlare di giustizia condivisa che prestare ascolto a  coloro che si dicono portatori di verità assolute o di leggi divine.  Eppure quanto fascino promana ancora dall’ Antigone di Sofocle: “Che cosa terribile quando il giudice equo dà una sentenza iniqua”. 

Se è vero con Bonazzi che bisogna riconquistare il Thauma, la meraviglia dei greci antichi per avere i loro occhi, mi trovo d’accordo con Maria Zambrano  che “L’uomo moderno, affacciandosi al mondo, continua a cercare uno specchio che gli restituisca la sua immagine; quando non la trova, si altera e, spesso vuole rompere lo specchio”. Ciò potrebbe spiegare il moltiplicarsi di detrattori contro la classicità.