Si scava, pietra dopo pietra, nella speranza di un altro miracolo: di estrarre, cioè, dalle macerie una persona ancora in vita. Una seconda, una terza, a distanza magari di 24, 48 ore dal sisma che ha raso al suolo un pezzo della memoria medievale dell’Italia appenninica. E mai, come in questa circostanza, la parola “disperso”, al suo connotato carico di significato negativo, aggiunge opportunamente quello di una palpitante speranza. E per ciò si prega. Amen.
Intanto, però, il numero dei morti è salito. Sono 267 mentre al momento della scrittura di questa nota. Di Amatrice, uno dei Cento comuni più belli d’Italia, scrigno misconosciuto di storia e di arte, resta solo un cumulo di pietre. Neanche la guerra fece tanto. “È interamente da costruire”, ha detto il sindaco agli inviati di mezzo mondo. E la situazione di Amatrice, purtroppo, non è dissimile alle decine di frazioni disseminate su questo fazzoletto al confine tra il Lazio e gli Abruzzi, ma non lontano da Umbria e Molise. Insomma, posto nel cuore dell’Italia, lungo quella dorsale che i geologi hanno da tempo colorato di rosso, evidenziandone l’alto grado di rischio tellurico. Rischio, a dire il vero, che indipendentemente dal colore, riguarda tutto lo Stivale, come la lunga teoria di terremoti verificatosi nei secoli ed in particolare negli ultimi anni, purtroppo ci ricorda anche se senza troppi insegnamenti.
Insomma, ad ogni scossa il copione si ripete. Uguale nella sua tragicità.
Negli ultimi 40 anni i terremoti sono costati all’Italia 147 miliardi, calcola uno studio del Consiglio nazionale degli Ingegneri. E nel bilancio non sono inclusi, ovviamente, gli effetti di quest’ultimo sisma, né degli ultimi due registrati in Emilia. E di questa somma enorme di denaro pubblico quasi la metà è stata spesa per il sisma in Irpinia, il cui consuntivo a 36 anni di distanza è tutt’altro che chiuso. Uno scandalo. Uno dei tanti legati al fenomeno geofisico e soprattutto alle “combriccole” burocratiche-imprenditoriali che con tali tragedie sono ingrassate facendo carne da macello. In tutti i sensi.
Per la semplice prevenzione, ricorda lo studio, sarebbero bastati 25 miliardi: un sesto della cifra. Invece abbiamo speso una somma pari 35 volte al valore dell’Imu sulla prima casa, di cui si è parlato inutilmente fino alla noia. E di cui si torna a parlare in occasione di un tragicomico dibattito tutto interno al partito democratico, il partito del presidente del Consiglio, la cui minoranza proprio in questi giorni si è detta contraria al programma di abbassamento delle tasse. Buone intenzioni, mi pare, ripescate dal cassetto della scrivania del primo, evidentemente assillato dal calo dei consensi che si accompagnano alle non brillanti performance economiche del governo. Giusto per ricordare: l’Ocse registra per l’Italia (e per la Francia, se può confortare) la crescita zero anche nel secondo trimestre.
Un fiume di denaro – si diceva – letteralmente buttato dalle finestre, soprattutto delle Regioni, chiamate a gestire non tanto l’emergenza (per fortuna c’è la Protezione civile) quanto la ricostruzione, attraverso una produzione abnorme di leggi e leggine (solo per l’Irpinia 25) che – in molti casi – con gli scandali hanno prodotto non soltanto opere incompiute, ma anche fatte male.
E sono le stesse Regioni che oggi registrano conti in rosso per 33 miliardi, come certificano finalmente le sezioni territoriali della Corte dei conti. Un risultato di bilancio – per dirla fuori dei denti – che ora pone una seria ipoteca sulle possibilità future per molti di questi enti territoriali, di mettere in campo le politiche di sostegno al welfare e di spinta alle imprese che sarebbero essenziali per rivitalizzare l’anemica crescita italiana.
Insomma, “per anni le Regioni hanno speso molto più di quanto avrebbero potuto in base alle proprie entrate e ora devono destinare elevate risorse al pagamento dei debiti pregressi anziché al sostegno di chi versa in stato di bisogno, al potenziamento delle infrastrutture e dei servizi sociali, allo sviluppo dell’economia locale”.
Ma tant’è. E dire che la settimana era cominciata sotto i migliori auspici. Con la parata, cioè, dei tre paesi leader dell’Europa Unita (club nel quale, con la Brexit, l’Italia sembrerebbe essere tornata a contare) a Ventotene, dove – con la guerra ancora in corso – tra grandi idealisti, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann, scrissero il famoso manifesto. Parata che ha fatto appunto dire a Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande: “L’Europa non è finita con l’uscita della Gran Bretagna. L’Europa va avanti”.
Speriamo bene.