Brexit, nella city la grande finanza manovra per evitare il divorzio dall’Unione Europea

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Brexit senza fine. Che la partita tra i “leave” e “remain” non si risolvesse col referendum era chiaro fin dalla vigilia ai più attenti osservatori. Un po’ per la complessità delle norme dei trattati, un po’ per la riottosità dei poteri – questi sì, davvero forti – a cedere terreno sulla scorta della decisione scaturita da un voto libero, democratico e popolare.

Insomma, la finanza internazionale che negli ultimi venti anni ha soverchiamente pesato più della politica in Europa (e non solo, a dire il vero) dettandone l’agenda, farà di tutto per non disancorare in maniera definitiva la City dal resto dell’Unione europea. E le prime avvisaglie già si vedono. Mishcon de Reya, per esempio, importante studio legale britannico che impiega oltre 400 avvocati nel mondo, ha lanciato una causa preventiva contro il governo di Londra per assicurarsi che l’iter legale di attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello che attiva la procedura di recesso dall’Ue, sia compiuto a norma di legge. Proprio così.

Lo studio legale – riportano le agenzie – si è mosso in seguito alla richiesta di un gruppo di imprese i cui nomi, ovviamente, non sono stati rivelati. Per gli avvocati della Mishcon de Reya, infatti, senza voto del parlamento il governo non ha poteri sufficienti per attivare l’articolo che innescherebbe la Brexit. Secondo il dettato dell’articolo 50, puntualizzano, “ogni stato membro può decidere il recesso dall’Unione in accordo con le sue proprie procedure costituzionali”. Dunque, lo studio legale si è incaricato di “proteggere la sovranità del parlamento”. Non del popolo. Contro la volontà del quale, intanto, con una manovra di accerchiamento, sembrano muoversi anche le agenzie di rating, espressione più evidente del potere finanziario.

All’indomani del referendum – ricorderete – Standard&Poor’s abbassò la pagella della Gran Bretagna. Ora ha emesso un altro verdetto: “Il Regno Unito non potrà evitare la recessione”. Ecco, secondo l’agenzia il conto che il voto presenterà all’economia britannica: “l’uscita dalla Ue avrà un impatto negativo dell’1,2% sulla crescita del 2017 e dell’1% su quella del 2018”. Sicché, George Osborne, ministro delle Finanze del governo dimissionario, è già al lavoro su possibili contromisure: vuole abbassare sotto il 15% l’imposizione fiscale sulle imprese, per portarla vicino al 12,5% irlandese ed evitarne la fuga.
À la guerre comme à la guerre”, si diceva un tempo con il linguaggio allusivo della diplomazia. Né mancano in questa guerra, come nella migliore tradizione, clamorosi e forse oscuri episodi che solo il tempo chiarirà. Nigel Farage, vittoria in tasca, si è infatti misteriosamente dimesso dalla guida del partito indipendentista Ukip. Apparentemente senza ragione. Ha spiegato, tuttavia, che vigilerà “come un falco” per assicurarsi che il voto del 23 giugno non venga disatteso con una ‘Brexit Light’ o un ‘Breversal’, come vorrebbe qualcuno”.

Intanto, col piglio (nel senso del verbo, evidentemente) manageriale che tutti gli riconoscono, il nuovo sindaco di Milano, Beppe Sala, è già volato a Londra per sondare il terreno: “Milano, una delle città con la più alta vivibilità in Europa, si candida all’eventuale ricollocamento dell’Autorità bancaria europea (Abe) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), forte di una ottima rete infrastrutturale, dieci università, investimenti per l’area post Expo e un mercato immobiliare in piena ripresa”, ha detto senza troppe perifrasi.

E sempre a proposito di finanza: neanche questa settimana la speculazione ha allentato la presa sulle nostre malandate – a dispetto della tanto decantata solidità – banche. Mps in testa, il cui titolo è stato più volte sospeso in borsa per eccesso di ribasso. Il premier Matteo Renzi è deciso ad intervenire, costi quel che costi, per salvare correntisti e obbligazionisti. E visto il clima che si respira, a Bruxelles e a Strasburgo sembrano dargli corda. L’occasione, tuttavia, è servita al toscanaccio per mettere finalmente giù dal piedistallo qualche santo improprio della sinistra. “Se le misure sulle Popolari fossero state prese dal governo di centrosinistra nel 1998 con ministro del Tesoro Ciampi e direttore generale del Tesoro Draghi – ha detto nella Direzione del partito dove i “rottamati” avrebbero voluto processarlo – oggi molte cose non sarebbero successe”.

Ma i Palazzi del potere romano sono stati nella tormenta, questa settimana, anche per i consueti episodi di sospetta corruzione. La pubblicazione delle solite intercettazioni hanno lambito il ministero degli Interni e la stessa famiglia di Angelino Alfano. Mentre la Procura di Milano ha denunciato l’infiltrazione di Cosa Nostra negli appalti dell’Expo. E per il terrorismo che uccide a Dacca nove italiani.

Insomma, le poche notizie positive rimbalzate sui giornali – Ocse e Inps di Tito Boeri hanno benedetto il Jobs Act; l’Italia recupera il gap digitale; Apple apre a Napoli e, nel frattempo, Renzi e De Magistris hanno ripreso a parlarsi – hanno l’effetto di un blando balsamo su ferite profonde.