L’esposizione sarà introdotta da Andrea Viliani, direttore del Museo Madre e della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, che ha offerto il suo Matronato al progetto. Un progetto che ben si colloca in quella rosa di eventi espositivi affidati dalla fondazione a Intragallery – Galleria di Arte Contemporanea di Napoli nell’ambito della rassegna estiva Arte / Cerio, a supporto di un nuovo modo di intendere la cultura. Siamo non a caso in quei territori insoliti esplorati da Iodice, con il suo essere artista anomalo, artigiano atavico, uomo che vive, si spende e lavora per la città in cui è nato. Con Iodice l’arte non ha ambiti precisi né incasellamenti. L’arte è arte, libera e difficilmente definibile.
Reperti impossibili titola il progetto. Ma se provassimo, solo per un attimo, a distorcere quella linea di confine che distingue il possibile dall’impossibile per immaginare il tempo come un’interconnessione di istanti capitali, l’impresa ci sembrerebbe assai fattibile. Del resto il lavoro di Iodice altro non fa che ribaltare l’idea di museo come spazio definito, chiuso. Perché il museo non ha solo il pregio di custodire, ma di vivere l’arte come pulsione in evoluzione: un’opera non va necessariamente musealizzata in senso canonico, ma vissuta e trasformata. La stasi a volte non ne è che la mortificazione.
L’arte è così intesa come calderone culturale in cui affondare le mani e reinventare il passato. E’ Mario Codognato a offrire una lettura puntuale dell’esposizione scrivendo: “le creazioni di Michele Iodice attraversano i secoli, gli stili, le suggestioni e le intuizioni che le hanno prodotte”, sottolineando la connessione imprescindibile tra i suoi lavori e la natura di una Napoli stratificata e contaminata. In effetti, se le nostre città fossero custodite sotto un’enorme campana di vetro, risulterebbero bellissime carcasse morenti e non disordinati e caotici organismi in movimento, di cui Napoli è esempio lampante. A guidare il lavoro dell’artista è qui, non a caso, la connessione emotiva con l’oggetto ritrovato, trasfigurazione di quell’urbe, la propria, che diventa cuore pulsante dell’esposizione stessa. O.O.Parts / Out of place artifacts / reperti impossibili ha dunque chiavi di lettura differenti che sfidano il tempo, reinventano la storia e ci mostrano la faccia più dinamica di una cultura capace di reinventarsi e reinventare.