La questione coreana oggi

Dall’Armistizio Coreano del 27 Luglio 1093 fino agli ultimi tempi, gli incidenti tra le due Coree arrivano a 221 le violazioni censite dell’armistizio da parte della Corea del Nord, e gli scontri  sono in gran parte avvenuti vicino alla Zona Demilitarizzata sulla Linea del Limite Nord.

Se se ne fa un calcolo, compreso il periodo “caldo” del 1977 in relazione alla costituzione della Prima Zona Economica Libera di Pyongyang, la Corea del Nord ha violato l’armistizio almeno 221 volte, con 26 attacchi militari veri e propri. Un numero similare lo si può attribuire alla Corea del Sud  con le sue  200, operazioni contro la Corea del Nord, concentrate soprattutto  tra il 1976 e il 1980. 

Gli USA, poi, hanno compiuto autonomamente attacchi partendo  dalle linee meridionali, con alcune  azioni coordinate  con le  forze di Seoul; e si tratta qui di  almeno venti raids, diretti contro alcune infrastrutture non-militari  della Corea del Nord.

La Zona Demilitarizzata, nata per congelare il momento più caldo della guerra fredda, quando MacArthur progettò il lancio di una bomba A sulla Cina Popolare, è però  figlia di una fase arcaica della stessa guerra fredda.

Quella fase, per dire, in cui Winston Churchill pensava di “aver ammazzato il maiale sbagliato” nella Seconda Guerra Mondiale e si proponeva, contro l’URSS sfiancata da uno sforzo bellico inenarrabile, compiuto insieme agli Alleati Occidentali, un “Piano Unthinkable” per portare la guerra dentro la Russia occidentale e centrale. 

Tutto cambia con la nuova logica della guerra fredda che nasce a partire dal famoso “telegramma lungo” di George Kennan da Mosca, scritto  dopo il Discorso del Bolshoi” di Stalin, spedito cifrato nel Febbraio 1946 e poi trasformato nell’articolo di Mr.X su Foreign Affairs del 1947, intitolato lucidamente e esattamente The Sources of Soviet Conduct.

Ecco, detto con chiara durezza, occorre cessare con  i rimasugli della prima e della  seconda guerra fredda nella penisola coreana. 

Si noti bene che il “discorso del Bolshoi” di Stalin chiariva che l’URSS deve riprendere l’esportazione del comunismo e che il piano di riarmo di Mosca deve proseguire rapidamente, perché l’URSS “è circondata da Paesi nemici”. 

Ecco, diciamolo chiaramente e brutalmente: chi pensa oggi di mantenere i rimasugli della prima “guerra fredda” è un  analista folle.

L’instabilità che si è creata nel Mar Giallo, fin dalle prime “crab wars” tra le due Coree della fine degli anni ’70, è un rischio oggi inaccettabile per entrambi gli attori primari di quel quadrante e per i loro alleati globali.

La destabilizzazione del confine Nord Est cinese con Pyongyang è un rischio oggi  inaccettabile per Pechino, la Russia non ha nessuna intenzione di mollare la presa in un quadrante essenziale come quello coreano, che è il collegamento tra i mari asiatici regionali e le invarianti occidentali della strategia marittima russa, lo stesso Giappone non può non rifare la sua “area di coprosperità” prebellica con la Corea, non necessariamente solo quella del Sud, dato che le dimensioni della sua economia non gli permettono altra via di uscita, gli stessi USA hanno tutto l’interesse a chiudere la partita coreana per evitare la costante destabilizzazione centroasiatica e per rendere “viabili” le loro aree del Pacifico. 

Xi Jinping ha chiarito, il 28 Aprile scorso, che “non sarà permessa alcuna instabilità nella penisola coreana”, e i game wars del CSIS di Washington ci consegnano USA e Cina, oltre che la Federazione Russa, simmetricamente capaci di “premere” sui loro referenti regionali per evitare l’escalation. Quindi non guerra fredda 2.0, ma la necessità di un “nuovo pensiero” che superi le logiche duali stile anni  ’90.

Dunque; si tratta di costruire un gruppo di Nazioni rilevanti, per storia, influsso, interessi e presenza nell’area, che non si occupi solo di nucleare militare e civile, l’abbaglio che ancora vela la strategia globale dell’Iran dopo la sigla del JCPOA e la lenta cessazione delle sanzioni contro Teheran. 

I “six party talks”, come è noto, sono  nati in una situazione di necessità che non presupponeva grandi spazi di manovra. 

L’uscita di Pyongyang dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare nel 2003 era al centro del problema, come se il TNP fosse ancora una cosa seria,  per non parlare del fatto che. durante il quinto round di trattative, la Corea del Nord accettò di chiudere le sue strutture civili-militari per la generazione di energia nucleare per definire  un accordo riguardante il combustibile fissile e la stabilizzazione delle relazioni con gli USA e il Giappone.

Gran parte delle azioni da “free rider” internazionale di Pyongyang sono, con ogni evidenza, un modo per attirare l’attenzione e aumentare il prezzo e l’interesse per gli USA di una trattativa finale con la Corea del Nord. Pyongyang ha solo la sua  parziale minaccia nucleare, che è inevitabilmente tattica.

Prima si chiude il “museo della guerra fredda” tra le due Coree e meglio sarà per tutti.  

Pyongyang mira al calcolo del minimo danno con il massimo di effetto strategico. Ovvio, non ha altri canali. 

La Corea del Sud è giustamente  impaurita dal “comunismo di guerra”  (è un termine tecnico) del Nord ma sa che la sua economia, la sua identità nazionale, il suo stesso assetto strategico sono indefinibili in vigenza del “museo della guerra fredda” aperto  di cui sopra. Seoul soffre di questo dente del giudizio della guerra fredda come il Nord, ma con effetti diversi.  

Il Giappone non vuole una rottura della sua continuità strategica e di sicurezza dal Golfo Persico fino al Pacifico Occidentale, per ovvi motivi energetici e di stabilizzazione della sua espansione commerciale e, ormai, militare.

La Cina non vuole che l’instabilità interna o l’utilizzo di un contrasto regionale sui suoi confini con Pyongyang, marittimi e terrestri, generi un effetto a catena in un’area peraltro dalle complesse dinamiche sociali e politiche della “modernizzazione” ed essenziali per la sicurezza cinese.

Gli USA hanno tutto l’interesse a chiudere una spina irritativa nel Sud Est asiatico che potrebbe, proprio anche per Washington,  destabilizzare amici e alleati, bloccando peraltro la continuità militare e strategica americana dal Grande Medio Oriente fino all’Oceano Indiano. La Russia non vuole che si metta in discussione un alleato fedele, Pyongyang, che è l’asse della “delega nucleare” di Mosca in Asia Meridionale, una “delega” molto simile a quella che i russi gestivano per gli apparati nucleari della Siria di Bashar el Assad. 

La Gran Bretagna potrebbe unirsi a questi nuovi “talks” sulla base del suo prestigio, della sua indubbia capacità mediatoria, dell’essere poi Londra capace di garantire i nuovi equilibri geostrategici. Lo abbiamo visto recentemente in Asia Centrale. L’interesse di Pechino è troppo evidente per sottolinearlo ancora. 

Quali potrebbero essere i punti iniziali di accordo tra Gran Bretagna, Federazione Russa, Cina, Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud e Corea del Nord? Semplice, se pensiamo la questione  fuori dal “mito incapacitante” della guerra fredda. 

Punto 1) riconoscimento ufficiale e internazionale dei confini attuali, magari con leggere modifiche non rilevanti, ovvero riconoscimento ufficiale della Corea del Nord, con tutto ciò che ne consegue. 2) Valutazione di un set di accordi e aiuti commerciali e finanziari per Pyongyang, al costo del 2007: la cessazione della produzione di materiale fissile e la stabilizzazione, sempre con un ruolo internazionale, delle Zone Economiche Speciali della Corea del Nord. 3) Garanzia collettiva, siglata anche da Pyongyang, dei confini e della sicurezza di Seoul. 4) Una progressiva smilitarizzazione della Zona Demilitarizzata, con garanzie multilaterali da verificare periodicamente. 5) Una garanzia militare delle due Coree alla quale partecipino sia Federazione Russa che Cina. La Gran Bretagna, 6) potrebbe occuparsi della sicurezza internazionale delle acque coreane, con accordi ad hoc. “bisogna continuamente ricominciare dalla fine”, diceva Stanislaw Lem.